Lewis Lloyd, il "Magic" che fu cacciato dalla NBA
The Basketball's Disease
03 Febbraio 2017
Il 10 Maggio del 1986 entrò nella pancia del vecchio The Forum ad Inglewood in California, mangiando un "Philly cheesesteak", panino, che fanno soltanto nella città dell’Amore Fraterno che secondo la loro cultura culinaria deve avere per forza la macchia d’olio fuori dalla carta che lo contiene. Stiamo parlando di uno dei figli nati nella città dove Rocky, interpretato da Sylvester Stallone, alzò per la prima volta le braccia al cielo in cima alle scalinate del Philadelphia Museum of Art.
All’epoca indossava la maglia con il N°32 ma non riceveva molte attenzioni, anche perché nell’altra squadra l’altra canotta col 32 attirava molti più media di chiunque altro. In più il suo soprannome era “Magic” quindi non si passa, lo showtime è suo. Lewis Kevin Lloyd da ragazzo nello stesso liceo che frequentò Wilt “The Stilt” Chamberlain, si appropriò del soprannome “Black Magic” perché dopo aver steso al suolo con un cambio di mano Fran “White Magic” McCaffery, schiacciò salendo sopra i 2 metri e 7 cm di DeWayne Scales con tale violenza quasi da fratturarsi la mano.
Quel giorno però stava per giocare la prima partita della serie più importante della sua vita, le finali di Conference insieme ad Akeem “The Dream" Olajuwon, Robert Reid, Ralph Sampson e Rodney McCray contro i Los Angeles Lakers di Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar, Michael Cooper, James Worthy, A.C. Green e Byron Scott. La prima la perdono in malomodo, anche perché la sera prima lui stesso con il suo compagno di squadra Mitchell Wiggins aveva visto forse troppe strisce bianche.
Nelle altre partite, però, accade qualcosa di magico. Lui riuscì con le sue giocate difensive ed i suoi canestri a spezzare gli equilibri dei Lakers. Nell’ultima gara, a 5 minuti dalla fine dell’ultimo quarto, dove durante un azione Akeem si allaccia in post basso con Mick Kupchek dando vita ad una rissa violenta sedata dopo molto tempo che lo fece espellere, divenne il leader della formazione fino alla fine. Uno degli upset più belli del basket, ne griffa 15 di punti e porta per la seconda volta i Rockets alle NBA Finals contro i Boston Celtics forse più forti di sempre, se non altro nel frontcourt: Bird-McHale-Parrish.
Il sogno di vincere il titolo ed alzare le braccia al cielo come Rocky a Philadelphia non si avvererà mai, sopratutto dopo la rissa che coinvolge Ralph Sampson contro Jerry Sichting in gara 5 e quest incubo, per lui, i media lo scriveranno nella storia col nome di Sweet Sixteen colorandolo dei colori dei Celtics. Ma succede di peggio la NBA lo trova insieme a quelle strisce bianche che lo squalificano con lo stesso procedimento usato per Michael "Sugar Ray” Richardson, di cui vi ho già parlato. Dopo due anni di squalifica “Black Magic” non è più lo stesso, è come se il suo corpo non riconoscesse più l’armonia e la ritmica dello sport che gli ha salvato la vita da una città più che violenta. Anche se uscì dalla tossicodipendenza il suo basket lo lasciò. Lo abbandonarono tutti, la NBA, le leghe minori dopo che per un periodo era ritornato anche a 30 di media. Non c’era più niente da fare, era inadatto all’evoluzione del gioco.
Il basket accelerava più volte davanti a lui, quasi viene doppiato. Ma non smise mai d’inseguirlo perché l’ultima volta, fu visto a cinquant’anni suonati dominare una Summer League a West Philly infatti l’amore per il gioco non l’ha mai abbandonato perché:
To Win The Game Is Great,
To Play The Game Is Greater,
But To Love The Game Is The Greatest Of All.