La riconoscenza, anche se di questi tempi molto rara, va coltivata.
Mi rendo conto che parlare di riconoscenza in questo determinato ambito possa risultare forse un po’ forte ma per chi come me è cresciuto con una passione, che spesso rasenta l’ossessione, per ciò che banalmente viene definito semplicemente scarpa, absit inuria verbis, la gratitudine nei confronti di chi, con una visione assolutamente profetica, ha cambiato per sempre la storia e il destino di ciò che mettiamo ai piedi, è d’obbligo. Questo weekend arriva a Milano Sneakerness, il più grande evento d'Europa dedicato alle sneaker. Un altro tassello che va a formare un puzzle sempre più completo e che disegna in modo evidente quanto questo trend sia al suo culmine in questo momento. Quando nel 1993 comprai la mia prima sneaker in maniera consapevole, tutto questo non era nemmeno immaginabile, non avrei mai pensato che il mercato delle sneaker potesse evolversi in questo modo, ma non tutti conosco le origini, non tutti sanno come tutto ebbe inizio. Proprio per questo io e la redazione di nss magazine abbiamo deciso di raccontarvi come tutto è iniziato e come un italoamericano ha cambiato la storia del marketing delle sneaker e dello streetwear per sempre grazie ad una "semplice" intuizione.
La mia gratitudine va ad un italoamericano che organizzava tornei di basket per i ragazzi che frequentavano le scuole superiori, tale Sonny Vaccaro. No, non è un personaggio dei Soprano’s, ma andiamo con ordine. Approfittiamo del bellissimo lavoro fatto da Roland Lazenby nella stesura di uno dei libri più belli e interessanti che siano mai stati scritti su uno sportivo, “Michael Jordan, la vita”, per approfondire la questione.
Attraverso il racconto di Lazenby e le parole dei protagonisti proveremo a portarvi nel 1982 per conoscere la storia dell’intuizione che ha cambiato la storia di Nike e del marketing delle sneaker e dello sportswear, per sempre.
SONNY
La prima volta che i legali della Nike incontrarono Sonny Vaccaro si domandarono se fosse un esponente della mafia. Di sicuro il look poteva trarre in inganno, così come il nome, l’accento, i modi stravaganti e soprattutto quell’aria di uno che sembrava conoscere segreti e cose che le persone normali non possono sapere. Michael Jordan ebbe la stessa impressione quando si sedette per la prima volta al tavolo insieme a quell’italiano tracagnotto con gli occhi da cane bastonato. "Non sono sicuro di voler avere a che fare con un tipo così losco" ammise di aver pensato Jordan. Gli piaceva l’idea che la gente potesse pensare che aveva degli “agganci”: in affari, tutto può tornarti utile.
La verità è che Vaccaro aveva sì dei legami con una certa quantità di uomini fasciati in completi pacchiani ma non erano mafiosi, erano allenatori di basket.
“Nel basket del 1978, con il denaro era possibile entrare nelle grazie di molti. Sonny Vaccaro avrebbe trasformato la Nike nella prova vivente di questo assioma.
Sonny Vaccaro rivoluzionò lo sport e il marketing che ruota attorno ad esso restando se stesso e mettendo in gioco tutto ciò che aveva guadagnato nel tempo. Per capire al meglio come uno come Vaccaro sia finito a lavorare per un’azienda come Nike bisogna analizzare i sei mesi dell’anno che Sonny trascorreva a Pittsburgh.
Aveva appena ventiquattro anni nel 1964 quando, insieme al compagno di stanza dell’università, Pat DiCesare, aveva fondato il Dapper Dan Roundball Classic, uno dei primi e che poi diventerà uno dei più prestigiosi tornei riservati alle stelle del basket scolastico.
La fortuna fu che quel tipo di evento rispondeva ad un’esigenza, quella di offrire una vetrina ai ragazzi che giocavano al liceo, così che le università potessero vederli dal vivo e reclutarli. In breve tempo a bordo campo era possibile incontrare allenatori del calibro di John Wooden e Dean Smith (quest’ultimo allenatore di Michael Jordan a North Carolina e suo “secondo padre”). Di per sé il torneo non portò mai Vaccaro a guadagnare cifre rimarchevoli.
Ma fu una vera e proprio miniera d’oro in termini di contatti. Vaccaro strinse amicizia con tutti i più importanti allenatori di basket.
Per Sonny l’unica cosa importante era il marketing e quindi riuscire ad avere a bordo campo delle celebrità che a loro volta si portavano dietro i media.
Nel 1970 “Sport Illustrated” pubblicò un reportage sull’attività di Vaccaro: È impossibile aggirarsi per il William Penn Hotel senza imbattersi in allenatori alla ricerca di giocatori delle superiori: nella hall, nei corridoi, al bar, in ascensore e a volte perfino sotto una palma in vaso…Vaccaro aveva conversazioni in corso con otto persone diverse, in differenti angoli della sala: lui riusciva a trattare ognuno con grande rispetto, nonostante stesse parlando con tutti contemporaneamente.
Verso la fine degli anni ’70, Vaccaro godeva di una certa visibilità e aveva acquisito una sicurezza invidiabile, ciò lo portò a fare un passo decisivo. Nel 1977 chiamò al telefono gli uffici della Nike a Portland, in Oregon, per proporre una sua idea per una nuova scarpa. La proposta fu gentilmente declinata ma Rob Strasser, uno dei massimi dirigenti dell’azienda, rimase ammaliato dei contatti che Vaccaro aveva messo insieme con tutti gli allenatori del college basket.
Assunse Vaccaro con la paga di 500 dollari al mese, gli mise trentamila dollari a disposizione su un conto, e gli chiese di far diventare i coach testimonial della Nike…Per lui fu un gioco da ragazzi: propose agli allenatori semplici contratti con la Nike, firmò assegni e spedì loro scarpe gratis da far indossare ai giocatori.
A quel tempo cinquemila dollari, questo era l’importo dell’assegno che Sonny staccava agli allenatori, erano un bel po’ di soldi e ai coach non pareva vero: “Allora, fammi capire: tu mi dai scarpe gratis e mi paghi anche? È legale?” chiese coach Valvano, ad esempio.
Era legale, ma dal punto di vista etico faceva storcere il naso a molti. L’idea di base era semplice: far indossare a dei dilettanti i materiali tecnici della Nike in modo da mandare un messaggio forte sia ai tifosi sia ai consumatori. Quando un giocatore di Indiana State, Larry Bird, apparve sulla copertina di “Sports Illustrated” con un paio di Nike ai piedi, la credibilità di Vaccaro ricevette la spinta decisiva.
Il Washington Post uscì con un articolo nel quale metteva in dubbio l’etica del sistema Nike e i dirigenti dell’azienda si preoccuparono dell’eventuale pubblicità negativa. Invece la risposta fu diametralmente opposta, ricevettero tantissime nuove richieste da di allenatori che volevano riuscire a mettere le mani su una fetta della torta.
THE VISION
Nel 1982 Sonny Vaccaro ebbe la fortuna, ampiamente guadagnata, di essere invitato da John Thompson alle Final Four di New Orleans. Le Final Four del 1982 non furono delle Final Four qualsiasi, ammesso che ce ne siano, ma furono quelle in cui, nel timeout decisivo a pochi secondi dalla fine nella finale contro Georgetown sotto di uno, Dean Smith diede la possibilità ad un giovanissimo Michael Jordan e a North Carolina di scrivere la prima parola di quello che sarà il più bel romanzo della storia delle sport, la sua vita. Gli disse testuale: “Knock it in, Michael!” Mettilo dentro, Michael. Infatti l’ultimo tiro lo prende Jordan, la lingua è fuori e la rotazione difensiva di Georgetown è lenta. Due punti. L’ultimo possesso di Georgetown finisce nel nulla e Carolina è campione. Il premio come miglior giocatore fu assegnato a James Worthy ma un altro aveva rubato la scena a tutti secondo Vaccaro e quel giocatore era il freshman con il 23 dietro la schiena che aveva messo il tiro decisivo, Michael Jordan.
“È successo qualcosa davanti al mondo intero”, disse. Era nata una stella ma solo in pochissimi se ne accorsero subito. Sonny non conosceva Michael e Dean Smith aveva firmato come testimonial di Converse che infatti i Tar Heels indossavano in partita. Dato che non è tutto chiaro sin dall’inizio, Jordan amava tutto ciò che fosse adidas, soprattutto le scarpe, perché appena le tiravi fuori dalla scatola erano pronte per giocarci, non avevano bisogno di essere indossate prima per ammorbidirle. Quindi Michael indossava adidas in allenamento per poi cambiarsi e infilarsi le converse d’ordinanza.
Vaccaro era convinto che il carisma avrebbe potuto rendere quel ragazzo una potenza di marketing. Desiderava che la Nike facesse firmare Jordan e realizzasse una linea di prodotti dedicati in esclusiva a lui.
Ne parlò con i dirigenti Nike in una riunione che si tenne nel gennaio del 1984, Jordan era al terzo anno con North Carolina e non si sapeva ancora se avesse giocato un altro anno al college oppure avrebbe fatto il salto trai grandi, in NBA.
I dirigenti dell’azienda avevano stanziato un budget di due milioni e mezzo di dollari per includere anche anche dei giovani, tra cui Charles Barkley…L’idea di distribuire il budget su una serie di giovani, nel pieno del draft del 1984, aveva la sua logica: “Non lo fate!” disse Vaccaro ai dirigenti. “Date tutto a quel ragazzo. Date tutto a Jordan”.
Vaccaro spiega: “La mia posizione era: tutti i soldi che abbiamo diamoli a lui”, Rob Strasser (executive di Nike fino al 1987) lo ascoltava in silenzio fino a quando chiese: “Ci scommetteresti lo stipendio?”, la risposta fu: "si!".
Tutti in Nike avevano imparato a fidarsi dell’intuito di Vaccaro ma nutrivano ancora dei dubbi su quella scommessa, anche perché per far partire e soprattutto funzionare quel tipo di investimento, avrebbero dovuto mettere insieme cose diverse. La Nike avrebbe dovuto creare un’unica linea produttiva sostenuta con pubblicità e branding di forte impatto.
LA TRATTATIVA
A quei tempi le strategie di marketing legate al basket erano legate alla squadra come entità unica e non al singolo giocatore, mentre per Jordan si pensò di attuare una strategia diversa. Doveva essere “venduto” come un tennista, come un sportivo singolo. A quel punto si decise di sottoporre l’idea al diretto interessato, Michael Jordan. Nell’agosto del 1984 Rob Strasser e Peter Moor, designer creativo di Nike, si incontrarono per la prima volta per discutere del progetto, intanto David Falk, agente del 23, aveva buttato giù una lista di idee per il nome delle scarpe e dell’abbigliamento di Jordan. Uno dei nomi di quella lista era “Air Jordan”. Quelle due parole conquistarono tutti, subito. Moore, alla fine di quella riunione, aveva già realizzato uno schizzo del logo, uno stemma con le ali che cingeva un pallone da basket e le parole AIR JORDAN.
Ora restava la parte più difficile, convincere la famiglia Jordan.
Michael aveva 21 anni e all’epoca era un ragazzo immaturo e per niente interessato al mercato delle scarpe. Vaccaro si rivolse al suo vecchio amico George Raveling, assistente di coach Bobby Knight allenatore della nazionale olimpica che avrebbe poi vinto l’oro olimpico, per avvicinare Jordan proprio durante quella olimpiade losangelina.
“Ci vedemmo da Tony Roma, George portò Michael e mi presentò”, ricorda Vaccaro. “Era la prima volta che incontravo Michael in vita mia. Ci sedemmo e parlammo di lui e della Nike. Non sapeva nemmeno cosa fosse la Nike. Dovete credermi. Io gli dissi, Michael, tu non mi conosci, ma costruiremo una scarpa solo per te. Nessuno ha ancora una scarpa tutta sua". Dato che non è tutto chiaro sin dall’inizio, non fu un colpo di fulmine, da entrambe le parti. Vaccaro e Jordan non si piacevano e la cosa divenne ancora più evidente quando Jordan, ignorando tutto e tutti, chiese a Sonny se poteva avere un’automobile.
Vaccaro gli rispose: “se firmi questo contratto potrai comprarti tutte le macchine che vuoi”.
“Voglio una macchina, ora”, rispose Jordan.
Michael non voleva firmare con noi, lui voleva l’adidas, perché in quegli anni facevano le tute più belle. Non parlarono mai di denaro, anche perché Vaccaro gli diceva che di quello non avrebbe dovuto preoccuparsi perché se quell’accordo fosse andato in porto sarebbe diventato milionario. Ma non c’era nulla da fare, Jordan voleva una macchina, nuova. Se Michael voleva una macchina, Vaccaro gli avrebbe procurato una macchina, “ti faremo avere un’auto, ok?”. Jordan non rispose, si limitò a sorridere. “Sai, Michael ha quel sorriso…ti guarda e fa quel sorriso ambiguo, che non sai mai cosa significa” ricorda Sonny.
Falk intanto stava parlando anche con Converse e adidas e mentre l’agente stava chiudendo il contratto con i Bulls, la Nike sapeva che la propria offerta andava ben oltre quelle delle rivali e a quel punto Jordan avrebbe capito quanto quell’offerta fosse incredibile e irrinunciabile. Il giorno successivo alla vittoria delle olimpiadi da parte della nazionale statunitense, iniziarono le trattative. L’intero budget su Jordan: due milioni e mezzo di dollari spalmati su cinque anni, tra premi, annualità e bonus alla firma. In termini di calzature sportive, per i professionisti della NBA, l’accordo non aveva precedenti anche perché la Nike riconosceva al giocatore il venticinque percento su ogni scarpa venduta. Quel contratto rappresentava la più grande scommessa mai fatta. Jordan non aveva mai giocato tra i professionisti, avrebbe potuto soffrire, all’epoca i Bulls erano una squadra gestita malissimo e che viveva all’ombra dei festini a base di cocaina che infestarono la NBA negli anni’70.
Il tutto ruotava attorno ad un’intuizione, ad una visione, quella di Sonny Vaccaro.
Arrivò il giorno per la famiglia Jordan di andare in Oregon, ma Michael chiamò la madre e gli disse che lui non sarebbe partito. Era stanco di viaggiare e l’ultima cosa che avrebbe voluto fare e prendere un aereo per una scarpa che nemmeno gli piaceva. Deloris Jordan fece quello che una madre deve fare, disse al figlio di non fare i capricci e di presentarsi puntuale in aeroporto la mattina seguente. Da bravo figlio Michael ubbidì.
C’erano tutti a quella riunione, arrivò anche Phil Knight (presidente e co-cofondatore di Nike) ad un certo punto. Il ruolo principale nella trattativa fu proprio quello di Deloris, “è stata lei a negoziare per il figlio, il genere di vita che poi Michael avrebbe vissuto”. Per l’intera presentazione Jordan non disse una parola, come se la cosa non lo interessasse e forse era vero.
Le uniche parole che pronunciò, dopo aver visto le scarpe rosse e nere, furono: “rosso…il colore del diavolo”. Vaccaro disse a Deloris che la Nike aveva fatto “all-in” su suo figlio, “dissi proprio così, e sono felice di averlo detto: abbiamo puntato tutto. Io stesso mi stavo giocando il posto e la Nike stava scommettendo sul proprio futuro, era una situazione incredibile. Si trattava di tutto il nostro budget. Per la madre di Michael era come entrare in famiglia, se eravamo disposti a metterci in gioco fino a quel punto.”
“Così farete di mio figlio il futuro di questa azienda?” chiese Deloris.
La risposta fu: “Se Michael non è con noi, falliremo”.
THE DECISION
Affinché tutto potesse avverarsi, c’era da convincere quel ragazzo strafottente e petulante che l’accordo era buono anche perché avrebbe guadagnato più con la Nike che con i Bulls. Jordan continuava a non essere convinto e a non proferire parola poi si girò verso Vaccaro e gli chiese di nuovo una macchina nuova. Sonny tirò fuori dalla tasca due modellini, uno era una Lamborghini e disse: “Michael, arriva un momento della vita in cui devi fidarti delle persone”. Alla fine della riunione quelli di Nike non avevano la minima idea di cosa pensasse Jordan della presentazione. Dopo cena, in un ristorante di alto livello dove Michael fu perfettamente a suo agio, gli consegnarono un montato dei suoi momenti migliori a North Carolina e poi guardò di nuovo il video della presentazione della linea Air Jordan.
L’accordo non era stato siglato, ma era stato stabilito un legame, e l’impressione era buona.
Ci furono gli ultimi approcci con Converse e adidas che non avrebbero mai potuto raggiungere ciò che offriva la Nike e quindi le due contendenti si ritirarono. Una delle più grandi intuizioni di Vaccaro non fu quella di capire che Jordan sarebbe diventato quel tipo di giocatore ma che la sua personalità magnetica avrebbe fatto vendere tutto ciò che portasse il suo nome.
In autunno finalmente, il contratto venne firmato.
TURNING POINT
Adesso però noi dobbiamo fermarci un attimo, perché questo è un momento incredibile, anzi storico.
Secondo me dovrebbero metterlo in tutti i libri di storia, incorniciarlo e appenderlo al MoMA perché questo è il momento in cui si sono messe le basi, non solo di una delle più grandi fortune della storia ma anche di tutto ciò che è successo nel mondo del marketing delle sneaker fino ai nostri giorni e per i giorni che verranno. Le operazioni di marketing e di branding nate in quella riunione hanno influenzato tutto ciò che ha riguardato il mondo delle sneakers a tutti i livelli. Se tutto questo accadeva nel 1984 ora, a distanza di 34 anni, le cose si sono evolute in un modo del tutto inaspettato. Fino a metà anni 2000 tutto viaggiava in TV e sui giornali chiaramente, gli spot di Nike sono diventati iconici, hanno dettato le regole che continuano ad indirizzare il mercato. Ricordo ancora quando tutto girava attorno al basket e alle pubblicità di Spike Lee e noi piccoli baskettari entravamo nei negozi di fiducia, c’era un’odore inconfondibile, lo stesso che sentiamo quando apriamo il nostro box con le scarpe nuove. Non esistevano gli store ufficiali (almeno nella mia città) e i piccoli rivenditori erano l’unico legame con un mondo lontanissimo.
OGGI
Oggi il panorama è totalmente diverso, non più baskettari nerd infottati con Jordan ma ragazzi che non hanno mai sentito parlare di pallacanestro e che farebbero di tutto e di più per avere un paio di Air Jordan 1 si mettono in fila per giorni pur di possederle. Uno dei creative designer più influenti al mondo, Virgil Abloh, si aggiudica il Footwear News Achievement Awards (FNAA) come “Shoe of the Year” nel 2017 con un opera di decostruzione e ricostruzione dell'iconica AJ 1 "Chicago", il fenomeno del reselling ha portato il mercato delle sneaker a subire un cambiamento radicale con la nascita dei consignment store in tutto il mondo. Negozi come Flight Club e Stadium Goods, a Milano Dropout, eventi come Sneakercon e Sneakerness sono diventati un punto di riferimento per tutti quelli che amano questo mondo. Il marketing delle sneaker oggi è tutto basato sull'esclusività di un modello rispetto ad un altro, ciò che muove i nuovi consumatori non è più la storia dietro la scarpa ma il cosiddetto hype, l'aspettativa che circonda una scarpa rispetto ad un'altra, infatti sono anni che non vediamo più quei meravigliosi spot che la Nike ci aveva abituato a vedere quando usciva una novità. Grazie ai social media tutto ha preso una piega molto più ampia, gli influencer dominano la scena sfoggiando le scarpe che tutti vorremmo e che facciamo fatica ad acquistare. Ci troviamo nel più classico dei Hystory in the making, stiamo guardando la storia che cambia davanti ai nostri occhi e come è giusto che sia non sappiamo dove ci porterà. Quali sono i rischi? La sovraesposizione, l'eccesso che ad un certo punto stufa. La più classica delle "bolle" che potrebbe esplodere da un momento all'altro, anche se personalmente non credo succederà a breve. Siamo ingolfati di release, drop e quant'altro tanto da non starci dietro, per avere la possibilità di comprare una scarpa ci sottoponiamo ad indovinelli sulle app del cellulare, ricorriamo a trucchi e trucchetti (bot, etc.). Lo sneaker game è diventato un gioco molto complesso con regole che cambiano continuamente e che rischiano, come dicevo, di stufare chi come me era abituato a tutt'altro. Tengo a precisare che non critico la struttura, cerco soltanto di analizzare il momento dal mio punto di vista, che è quello di un ragazzo di 36 anni che amava entrare in un negozio di scarpe, chiedere il paio che desiderava e portarselo a casa. Mi manca quella semplicità niente di più, ma ho paura che tornare indietro sia impossibile, anche perché come scriveva Bruno Munari, uno dei massimi protagonisti del design e della grafica del XX secolo, "complicare è facile, semplificare è difficile".