Pato ha vinto il Pallone d'Oro
La storia d'amore tra il brasiliano ed il Milan raccontata in quattro passaggi
18 Ottobre 2018
È difficile spiegare quanto un giocatore possa diventare un'icona, per un ragazzino di quindici anni. Non basta un poster in camera a riassumere tutta l'adorazione che si prova nei confronti di un idolo. Però vuoi tenerlo lì, appeso, e vicino la prima pagina di una rivista che dice: 'Pato, ora tocca a te'. Toccava a lui, nel 2007. Toccava a me, che avevo appena iniziato il liceo e non sapevo come sarebbe andata. In fondo non lo sa nessuno. La consapevolezza che il calcio era lo sport che amavo, solo a quindici anni l'ho avuta. Pato è stata la freccia di cupido: mi sono innamorato prima di quel giovane brasiliano, poi del calcio. È stata solo una conseguenza. Forse, se non ci fosse stato lui, oggi seguirei con passione un altro sport. Sono le strade del destino, e io ancora non conoscevo il mio. In fondo non lo conosce nessuno.
Oggi so solo che nella mia testa Pato ha vinto il Pallone d'oro. Voi non ci crederete, ma per me è andata proprio così. Ditemi ora se, circa dieci anni fa, a nessuno è capitato di sentire questa frase, in riferimento a Pato: “Tra tre anni questo vincerà il Pallone d'oro”. Lo abbiamo detto tutti, anche se adesso qualcuno non se lo ricorda. Il tempo fa questo effetto. I calciatori passano, è arrivata l'egemonia Ronaldo-Messi, Neymar è diventato il più pagato di sempre e l’hype si concentra altrove. Ma Pato, per me, era l'hype reincarnato su due piedi, qualche brufolo e un capello riccio e arruffato. Oggi Pato è lontano, la sua carriera si è impennata quasi subito verso le stelle per poi schiantarsi al suolo. Pato gioca in Cina come tanti altri suoi colleghi spariti un po’ dai radar. Ogni tanto manda messaggi d’amore al Milan, sui social o nelle interviste: i tifosi lo aspettano, lui vorrebbe tornare, ma tutto resta sul piano delle battute che si fanno al pranzo di Natale sulla fidanzatina, ma c’è o non c’è, ma quando ce la fai conoscere, e facci vedere una foto dai. La verità, l’unica, tangibile, è che Pato e il Milan non stanno più insieme. Però la storia d’amore c’è stata, divisa in quattro momenti fondamentali, che aiutano a descriverne il talento. Quattro atti: l'esordio, la doppietta al Real Madrid, la doppietta nel derby e il gol al Barcellona. Quella di Pato è una storia senza inizio, né fine. È tutto un continuo svolgimento, in attesa di una consacrazione che non arriverà mai. La sua storia comincia in medias res e il finale non è arrivato fino a noi, come un'opera antica della quale è andata perduta l'ultima parte.
Atto primo
L’anno scorso eravamo lì a scervellarci sui 222 milioni di Neymar. Togliete un "2" e avrete il prezzo che pagò il Milan, nel 2007, per assicurarsi un brasiliano ancora minorenne. Che esordì soltanto nel gennaio del 2008. Eccolo, il poster: Pato, ora tocca a te. Eccolo, il concetto di hype: un giocatore tenuto nascosto per cinque mesi, di cui tutti parlavano un gran bene. Eccolo, l'esordio col Napoli. Ero davanti al televisore, si parlava di Ka-Pa-Ro, era uno dei Milan se non più forti, sicuramente più spettacolari di sempre. Arrivava dalla vittoria della sua settima Champions League. Kakà, dal Pallone d'oro. Ronaldo, c'era Ronaldo al Milan. E poi lui, Pato. Si presentò definitivamente con un tiro di collo pieno, da lontano. Una bomba, letteralmente. Molti di voi ricorderanno anche la telecronaca di Caressa, in quella partita. Lo stupore del telecronista era anche il nostro: nessuno, fino a quel momento, aveva visto quel giocatore su un campo di Serie A. E poteva mancare il gol? No. In una storia del genere, il gol non poteva mancare. Una partita rocambolesca, che sembrava anch'essa scossa da quel giocatore. Una sfida cominciata con quel clamoroso gol-non gol di Ronaldo, con Pato in mezzo. Un match che era un tornado, e anche Pato lo era, e nessuno riusciva a stargli appresso, nessuno lo riusciva a fermare. Pato, quel giorno, si poteva solo filmare: come un uragano in lontananza, e tu sei in auto e non puoi fare a meno di tirare fuori il telefono e riprendere quello che sta accadendo, anche se sarebbe meglio scappare via, darsela a gambe levate e correre come correva quel ragazzo di diciotto anni.
Atto secondo
Il narratore della storia di Pato sembra essere Fabio Caressa: è sempre il telecronista di Sky ad accompagnarlo. Caressa è l'aedo e il calciatore brasiliano il poema da narrare. E sempre la storia di Pato sembra essere accompagnata da partite assurde, che cominciano in maniera strana, come strana e inspiegabile è la carriera del Papero. Quella sera, al Santiago Bernabeu, il risultato venne sbloccato da una clamorosa papera di Dida, che si lasciò sfuggire il pallone in maniera goffa e Raul non lo perdonò. Il Milan era sotto, poi il gol di Pirlo, altro fatto clamoroso, da poema omerico: il suo tiro a foglia morta che inganna Casillas e rimette in piedi i rossoneri. Eppure, eppure. Eppure il palcoscenico se lo prende comunque un ragazzo brasiliano, che anche in Europa riesce a stupire. Il primo goal, un'intuizione: pallone lasciato scorrere senza anticipare il movimento, un piede alzato per un tiro che non avviene, Casillas (Casillas!) ingannato da quel non-fare, che in quel momento si è rivelato fare la cosa giusta. E il pallone appoggiato nella porta ormai sguarnita. Poi: il pareggio di Drenthe, inaspettato, un tiro da fuori con Dida coperto e in ritardo. Poi: un gol ingiustamente annullato a Thiago Silva, rivelatosi in seguito autogol di Ramos. Caressa, l'aedo, incredulo. Infine, il genio di Seedorf vede Pato lasciato libero sulla destra e disegna una parabola perfetta, il brasiliano calcia il pallone verso la porta in modo altrettanto perfetto, per un finale perfetto che, sempre l'aedo, definisce giusto così. Due a tre al Bernabeu, Pato protagonista anche in Champions League.
Atto terzo
Caressa continua il suo racconto, e tutti lo ascoltano, in silenzio. Quattro aprile duemilaundici, il Milan viaggia a vele spiegate verso lo scudetto. Prima, però, c'è un derby da vincere. E succedono sempre cose mirabolanti. Pato impiega quarantasette secondi per sbloccare il match. Lo fa da rapace, mettendo in luce anche l'ultima delle doti che gli erano rimaste da dimostrare. Raccoglie un pallone sporco dopo un contrasto tra Robinho e Julio Cesar, e lo spinge in rete. Se l'Inter non pareggia, poi, è per un miracolo di Abbiati su Ranocchia e per un errore incredibile di Eto'o, che la tira fuori a un metro dalla porta libera. Ma questa è la storia di Pato, e Pato se la prende: il brasiliano si fa fulmine e squarcia la difesa nerazzurra, Chivu lo ferma nell'unico modo in cui si poteva fermare il rossonero, in quegli anni, ossia con un fallo. Rosso diretto. A chiudere il match pensa di nuovo Pato, con un colpo di testa su un assist di Abate che era più un tiro strozzato, ma il Papero ha creduto in quell'errore, lo ha rivalutato, valorizzandolo al massimo: gol di testa e due a zero. La partita sarà chiusa da Cassano su rigore, al novantesimo. Il Milan vincerà il suo diciottesimo scudetto e il merito sarà anche di Pato: sedici gol, suo record personale.
Atto quarto
Caressa, stanco, si appoggia su una sedia e si lascia andare a un sonno riconciliante. Sogna, e forse sogna di Pato con un pallone dorato in mano. Ma la storia non è ancora finita. C'è l'ultimo atto: il più grande, quello che riassume gli altri e che racconta meglio Alexandre Pato. La parola preferita del brasiliano è velocità. Intesa come rapidità sul campo, ma anche come tempo che passa. Pato, al Camp Nou contro il Barcellona, il tredici settembre del duemilaundici, ha sfidato i concetti della fisica, ha incontrato Donnie Darko fuori dallo stadio e si è fatto spiegare la teoria dei Wormholes, ha rotto le barriere dello spazio e del tempo. Pato, quella sera, è passato tra le maglie blaugrana tra giocatori increduli, che lo vedevano spostarsi non sul campo, ma attraverso campi di forza che solo lui conosceva, e presentarsi da solo davanti a Victor Valdes. Un gol mai visto di un giocatore mai visto dagli altri, che ne hanno colto solo una rapida immagine, una fotografia sfocata. Pato, in quel momento, raggiunse l'apice. E non tornò mai più.
L'opera giunta a noi si interrompe qui, ed è un peccato. Riflettendoci meglio, però, può essere anche un bene: una storia incompiuta ha un finale che ognuno di noi può inventarsi. Io, personalmente, preferisco una delle versioni elaborate dagli studiosi: quelli che credono nell'ascesa totale, seguendo il corso delle giocate del brasiliano. Una parabola ascendente, per l'appunto, che lo vede toccare le vette del calcio due anni dopo, nel 2013. Con il Milan che alza la sua ottava Champions League e Pato che, pochi mesi dopo, solleva il Pallone d'Oro, sorridendo ai fotografi.
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