Di cosa parliamo quando parliamo di Steve Nash
La creatività al potere
07 Febbraio 2019
"Seven seconds or less"
(Mike D'Antoni)
Bertolt Brecht diceva che "per improvvisare bisogna conoscere molto bene la materia" e il protagonista della nostra storia era (e lo è ancora) semplicemente uno scienziato e la materia è la pallacanestro.
Steve Nash non è stato solamente un giocatore di basket, è stato un'icona di resistenza umana.
Diciassettemila punti, diecimila assist, 191 cm (a restare larghi) per 80 kg e ritiratosi a 41 anni, Nash nasce a Johannesburg, in Sudafrica nel 1974, da madre gallese e padre inglese. Il padre era un calciatore professionista (non di altissimo livello) che giocava appunto in Sudafrica dove aveva trovato un contratto soddisfacente e dunque è nel Sudafrica degli anni '80 che cresce Steve, un paese dove l'apartheid e la segregazione razziale erano diventati ormai insostenibili. Proprio per questo motivo, John, padre di Steve, pensò che quel Sudafrica, con un clima come quello, non fosse il posto migliore dove far crescere i suoi figli e quindi decise di trasferire tutta la famiglia in un altro paese dell'ex Commonwealth, in Canada a Victoria, British Columbia, vicino alla città probabilmente, ad oggi, più vivibile del pianeta, Vancouver.
Steve diventerà infatti cittadino canadese e in un contesto sano e di integrazione cresce sviluppando una capacità relazionale unica che unita alle sue potenzialità motorie, di coordinazione e alla sua assoluta dedizione, lo renderanno uno dei giocatori più rivoluzionari della storia del gioco.
Se lo vedeste entrare in casa vostra, la prima domanda che vi fareste è: "ma questo è stato un giocatore NBA?"
Non solo è stato un giocatore NBA, Nash è stato uno dei dieci giocatori nella storia ad essere eletto MVP della regular season per due stagioni consecutive (2005 e 2006) giocando una pallacanestro di una libertà espressiva unica, dando la costante impressione di divertirsi come un matto ad andare così veloce su e giù per il campo e a passare divinamente il pallone (è terzo nella classifica degli assist all-time dietro solo all'irraggiungibile John Stockton e a Jason Kidd).
Come tutti gli eroi romantici Nash non ha mai vinto niente, non ha nemmeno mai giocato una finale NBA ma questo è un dettaglio del tutto trascurabile. Il suo impatto, la sua legacy, hanno segnato per sempre lo sviluppo del gioco della pallacanestro contemporanea. Pensate soltanto ai tre volte campioni NBA negli ultimi quattro anni, i Golden State Warriors (con i quali tra l'altro collabora attualmente) e al suo capitano/playmaker, Stephen Curry (anche lui MVP in back to back); Steph ha più volte dichiarato di essersi ispirato a Steve e se vi piace come giocano gli Warriors allora andrete matti per come giocavano i Phoenix Suns di Mike D'Antoni con Nash che aveva le chiavi del gioco e l'assoluta libertà di assecondare le sue visioni e con un mantra che è divenuto con il tempo, l'emblema della filosofia d'antoniana, "Seven seconds or less" che consisteva nell'arrivare al tiro nei primi 7 secondi dell'azione per dare così una velocità, una spettacolarità di gioco unica divertendo come nessuna squadra aveva fatto prima di quel momento. Steve Kerr (all'epoca General Manager proprio dei Suns) poi, sulla panchina di Golden State, ha sviluppato e messo in pratica con la "Death Lineup" dominando la NBA negli ultimi anni.
Steve Nash è stato ciò che di più lontano ci possa essere dallo stereotipo della superstar NBA: atteggiamento sprezzante (in campo e fuori), che veste capi da migliaia di dollari, che va in giro con i macchinoni oppure che ha una bionda in ogni porto. Steve è stato esattamente il contrario, non perché fosse più "buono" delle altre superstar ma perché semplicemente era così: vestiti anonimi e come mezzo di trasporto nella Grande Mela, vive a New York da un po', usa lo skateboard.
Nash da ragazzino giocava a hockey molto bene, a lacrosse (uno sport indiano che si gioca con una specie di retino per farfalle ed è di una violenza indicibile) e a calcio. Steve avrebbe tranquillamente potuto giocare come mezzala destra in un campionato europeo di medio livello senza sfigurare, grande amico di Alessandro Del Piero, azionista del RCD Mallorca nella Liga spagnola, co-proprietario dei Vancouver Whitecaps nella MLS, insieme al cugino Ezra Holland ha diretto un documentario della serie di ESPN "30 for 30", chiamato “Into the Wind” su Terry Fox, il corridore con una protesi alla gamba noto per la maratona da un costa all'altra del Canada, con l'obiettivo di raccogliere fondi per la ricerca contro il cancro. Con la sua casa di produzione, la Meathawk, ha realizzato anche spot per Nike, VitaminWater, Toyota e EA Sports. Ah, preferiva e preferisce tuttora, guardare Chelsea-Arsenal che San Antonio Spurs-Toronto Raptors.
Di cosa parliamo quindi quando parliamo di Steve Nash? Parliamo del sogno di ognuno di noi che si avvera, di un normolineo che attraverso la passione smodata per lo sport in generale, una dedizione senza pari, una costanza e un'intensità negli allenamenti impressionante, senza avere apparentemente diritto di cittadinanza nella NBA, ne diventa l'MVP per due volte di fila cambiando per sempre il gioco e l'approccio dei suoi interpreti.
Per citare Marcel Proust ne La Prisonnière: "Il solo vero viaggio, il solo bagno di giovinezza, non sarebbe quello di andare verso nuovi paesaggi, ma di avere occhi diversi, di vedere l'universo con gli occhi di un altro, di cento altri, di vedere i cento universi che ciascuno di essi vede, che ciascuno di essi è".