Cosa c'è di sbagliato nei giornali sportivi italiani
La scomparsa di Kobe Bryant ha mostrato ancora una volta i problemi del giornalismo sportivo italiano mainstream
31 Gennaio 2020
In un pezzo pubblicato sul terzo numero di Rivista Undici nell’aprile 2015, Simon Kuper riportava un passaggio del saggio 'Chiacchiera sportiva' di Umberto Eco in cui si sosteneva come oggi lo sport «consiste di una discussione della stampa sportiva, che genera a sua volta il discorso sulla stampa sportiva, e dunque uno sport elevato alla potenza n». La polemica, naturalmente a mezzo social, che si è sviluppata a seguito della scelta dei tre principali quotidiani sportivi italiani di non dedicare l’intera prima pagina di lunedì 27 gennaio a Kobe Bryant – a differenza di quanto fatto dagli omologhi stranieri come L’Equipe, Marca, AS, Sport – ha rilanciato non solo l’idea di un dibattito sportivo ormai sempre più staccato e indipendente dallo sport stesso, ma anche la ciclica discussione sul “calciocentrismo” talvolta esasperato (ed esasperante?) della stampa di settore, anche di fronte ad avvenimenti epocali, positivi o negativi che siano. Una percezione, tra l'altro, condivisa anche da Marco Belinelli e Federica Pellegrini – che su Instagram hanno usato toni poco concilianti – oltre che da Fabrizio Biasin e Massimiliano Ambesi, due tra i giornalisti sportivi italiani più social.
Su Twitter, in un thread ben presto degenerato nei modi e nei toni, Roberto Maida del Corriere dello Sport – che alla tragedia di Calabasas ha riservato il taglio alto in prima e due pagine di approfondimento dopo i servizi su Serie A, B, C e D. Una linea seguita anche da Tuttosport, mentre la Gazzetta dello Sport ha optato per una prima divisa tra Kobe e Napoli-Juve e le pagine dalla 2 alla 7 riservate agli articoli sul campione scomparso – fornisce una potenziale chiave di lettura, parlando di «una comunicazione diversa. Un lettorato diverso. Una cultura diversa» dell’estero in relazione alla priorità e al risalto da dare a un certo tipo di notizie rispetto allo sport nazionalpopolare per eccellenza. Si tratta di un modo per ribadire come una certa linea editoriale sia il frutto della volontà di dare al lettore e all’appassionato italiano quello che vuole: quindi calcio in primis, sempre e comunque, poi tutto il resto. Anche quando si tratta della morte improvvisa di una delle ultime icone globali, globalizzate e trasversali del nostro tempo. E pazienza che in Spagna – Paese affine per ciò che riguarda le centralità culturale del calcio e, quindi, per impostazione dei quotidiani di settore – prima della breaking news di TMZ era tutto pronto per la celebrazione della nazionale di pallamano campione d’Europa in Austria.
Io nemmeno ero in redazione ieri, visto che c’era il derby. Se dobbiamo fare una graduatoria di notizie, la tragedia di ieri non meritava di cancellare una prima pagina alle 20.30. All’estero c’è una comunicazione diversa. Un lettorato diverso. Una cultura diversa.
— Roberto Maida (@RobMaida) January 27, 2020
Una scelta per certi versi condivisibile in un periodo di profonda crisi del cartaceo – stando ai dati ADS diffusi a gennaio da Prima Comunicazione, rispetto al novembre 2013 Gazzetta, Corriere e Tuttosport hanno perso rispettivamente il 38, il 48 e il 59% in termini di diffusione e di copie vendute – ma che non sembra trovare un riscontro fattuale, sia nel caso di specie che più in generale. Non è tanto, o non è solo, una questione dei feedback negativi ricevuti da quegli stessi lettori che si cerca di accontentare o di qualità complessiva del prodotto offerto: certi canoni di immutabilità del giornalismo sportivo tradizionale hanno reso lo stesso inadatto ad affrontare i cambiamenti necessari in un mondo in continua evoluzione dal punto di vista della multimedialità e dei contenuti, portandolo a perdere terreno non solo nei confronti dell’online (ma questo era ed è inevitabile) ma anche nei confronti dei quotidiani stranieri di riferimento. Di fatto si è venuta a creare una “comfort zone” che tale non è – viste le vendite in calo drammatico e progressivo – e che porta a sottostimare e banalizzare la voglia di qualcosa diverso o anche solo adeguato ai tempi del fruitore finale. Un paradosso che giustifica un certo modus operandi con la crisi del settore ma che rende impossibile l’adozione delle contromisure necessarie per (provare a) uscire dalla crisi stessa.
Senza dimenticare l’aspetto relativo alla cultura sportiva in senso stretto: pensare che la morte di Kobe Bryant non sia un avvenimento che possa stravolgere i tempi editoriali e redazionali precedentemente dettati da un posticipo di metà stagione, o comunque meritevole di una prima pagina interamente dedicata, significa non avere fiducia nella capacità di comprensione delle priorità da parte dei lettori, soprattutto quelli di nuova generazione. Oltre che una percezione errata dell’effettiva dimensione extra campo di personaggi che, soprattutto nell’epoca dei 200 milioni di follower di Cristiano Ronaldo, sono trend setter prima ancora che atleti di grande livello nei rispettivi sport. Kobe Bryant non era “solo” uno dei cestisti più forti di tutti i tempi, tra i pochissimi in grado di raccogliere l’eredità di Michael Jordan senza farsi schiacciare dal peso delle responsabilità, ma anche il vincitore di un Oscar per un cortometraggio animato basato su una sua lettera, l’autore di un libro che sarebbe stato scritto insieme a Paulo Coelho, l’ispiratore di una vera e propria filosofia di vita – la “Mamba Mentality” – entrata a far parte del linguaggio comune delle persone comuni. E un padre che, all’ultimo istante dell’ultimo giorno della sua vita, stava semplicemente facendo il padre accompagnando sua figlia e le sue compagne agli allenamenti.
Mamba Forever. pic.twitter.com/wIchSUwFM2
— Nike (@Nike) January 26, 2020
Come Muhammad Ali, come Ayrton Senna, come Marco Pantani, Kobe è stata la rappresentazione dello sport oltre lo sport, parte di una quotidianità collettiva e condivisa anche da chi non è necessariamente appassionato di basket NBA. Che sapeva, e sa, chi era Kobe Bryant, così come sa chi è Roger Federer o LeBron James, Federica Pellegrini o Usain Bolt, Lewis Hamiltom o Tom Brady, Serena Williams o Valentino Rossi. Evitando quella ulteriore “settorializzazione” di un’informazione già settorializzata di suo, che non dovrebbe essere più possibile nel 2020 e che, invece, di tanto in tanto torna a palesare i suoi limiti e le sue controindicazioni.