Come si sono evolute le sneakers in NBA?
Un lungo viaggio attraverso le migliori signature shoes di sempre
27 Febbraio 2020
Il debutto, in occasione dell’All Star Game, della prima signature shoe di Kawhi Leonard è stata solo l’ultima tappa del percorso che ha portato New Balance a ritagliarsi un ruolo significativo all’interno del mercato delle scarpe da basket. Un mercato che si riteneva già da tempo saturato dal duopolio Nike-adidas e che, invece, ha rivelato ulteriori margini di manovra.
L’anno chiave, in questo senso, è stato il 2013 quando Under Armour, marchio fino a quel momento associato all’abbigliamento da palestra, decise di mettere sotto contratto Steph Curry. E se la franchigia che lo aveva scelto nel 2009 con la pick #7 al Draft continuò a puntare su di lui alla scadenza del suo contratto da rookie, Nike scelse invece di proporgli un accordo al ribasso da poco meno di 2.5 milioni di dollari, rispetto ai 4 offerti dall’azienda di Baltimora: diventare l’uomo di punta di un marchio in rampa di lancio fu quasi naturale. Una strategia che New Balance sta cercando di replicare, da un lato mettendo sotto contratto una delle icone globali della lega più famosa del mondo e dall’altro cercando di diventare appetibili per star che sul medio-lungo periodo possono crescere in termini di visibilità e status.
Che, poi, è ciò che ha fatto Puma quando si è trattato di rientrare in grande sul mercato nel 2018, dopo quasi vent’anni di assenza: prima assegnando a Jay-Z il ruolo di direttore creativo della sezione basket, poi decidendo di sponsorizzare DeAndre Ayton e Marvin Bagley – pick #1 e #2 al Draft di quell’anno –, infine firmando giocatori di primo livello come DeMarcus Cousins, Danny Green, Kyle Kuzma e Marcus Smart. Senza creare una scarpa personalizzata per ciascuno di loro ma puntando su un modello unico – la “Clyde Court Disrput” – disponibile in diversi abbinamenti di colore.
Il motivo è semplice: nell’epoca in cui esiste un account Instagram interamente dedicato alle scarpe indossate dai giocatori NBA sera dopo sera, per i brand è diventato assolutamente fondamentale fare di loro icone di stile anche fuori dal campo, strizzando l’occhio a quella parte dello streetwear che è diventato parte integrante della cultura popolare anche al di fuori degli Stati Uniti. Per questo, oggi, per Nike non è importante che le “LeBron XVII” vengano acquistate dai giocatori di basket, ma che lo siano anche da clienti normali, pronti ad usarle nella vita di tutti i giorni: ad essere cambiato è il target di riferimento, parametrato sui principi dell’advanced marketing per cui non si acquista un prodotto ma un’esperienza di cui essere parte e che va molto oltre il campo.
Si tratta dell’evoluzione di un mercato in continua espansione che, all’inizio degli anni ’60, aveva nelle “Chuck Taylor” della Converse – rigorosamente total black o total white – le prime vere sneakers della storia, oltre che l’epitome del cult ben prima di diventare un simbolo di ribellione e anticonformismo ai piedi di gruppi rock come gli AC/DC, Ramones e i Nirvana. I primi cambiamenti si notarono già nel decennio successivo, quando Puma creò la “Clyde” per Walt “Clyde” Frazier, leggendario playmaker dei New York Knicks che per primo sdoganò l’idea di eccesso e di sfida alle convenzioni nell’abbigliamento off the court dei giocatori NBA, in modo da associargli il termine “swag” ben prima che fosse inventato. Una scarpa in pelle scamosciata con una suola più ampia del normale, disegnata seguendo gusti e inclinazioni di uno dei giocatori più popolari dell’epoca: la strada che dal parquet del Madison Square Garden portava alla quotidianità di Harlem e Brooklyn (e non solo) era ormai tracciata.
E non ci volle molto prima che altri la percorressero. Prima timidamente – come Converse che, negli anni della sfida totale tra i Celtics di Larry Bird e i Lakers di Magic Johnson, lanciò la “Weapon” nelle varianti di colore ispirate alle due franchigie – poi con sempre maggiore aggressività. L’anno spartiacque fu il 1985, quando Nike sbaragliò la concorrenza per i vent’anni successivi lanciando la signature shoe di Michael Jordan: il commercial di lancio delle “Air Jordan I”, in aperta sfida al dress code imposto dalla NBA in termini di calzature da indossare, costituì il punto di non ritorno in termini di moda associata ai giocatori e alle prestazioni. Tutte le “Jordan” degli anni ’80 divennero dei classici per gli sneakerheads di tutto il mondo, con la punta di eccellenza assoluta costituita dalla “Jordan III”: disegnata da Tinker Hatfield sfruttando la tecnologia “Air Max”, fu la prima scarpa che vide la naturale associazione tra il prodotto finale della filiera creativa e il giocatore che stava riscrivendo lo stile e le regole del gioco. Rilasciata nel febbraio del 1988, sull’onda lunga dello Slam Dunk Contest vinto contro Dominique Wilkins, sarebbe diventata la “Jordan” più famosa di sempre.
Oltre che la base sulla quale Nike avrebbe costruito un monopolio durato fino al primo decennio del 2000, complice anche il successo della linea “Hyperdunk” – nata nel 2008, giusto in tempo per essere indossata da alcuni dei membri del “Redeem Team” delle Olimpiadi di Pechino – e nonostante la concorrenza riuscisse spesso e volentieri a contare su testimonial del calibro di Allen Iverson, Shawn Kemp e Shaquille O’Neal (Reebook) o Kobe Bryant e Tracy McGrady (adidas). Il principio era sempre quello di una scarpa che fosse resa riconoscibile dal giocatore che la indossava: e, quindi, le “Air More Uptempo” di Scottie Pippen, le “Air Shake Ndestrukt” di Dennis Rodman, le “Air Foamposite One” di Penny Hardaway, le “Air Force Max” di Charles Barkley. Il tutto sfruttando quella connection tra basket e cultura hip-hop che ispirava colori, forme e vestibilità.
Oggi la situazione è radicalmente mutata, non solo per quel che riguarda la pura dimensione estetica e creativa: anzi, da quel punto di vista sembra si stia virando verso un sostanziale appiattimento nella varietà e nell’innovazione dei modelli proposti. Ad essere diverso è il tipo di approccio che i marchi stanno avendo nel modo di rapportarsi ai cambiamenti imposti dal contesto socio-culturale. E per quanto adidas sia riuscita a reggere il confronto con Nike sul terreno del leverage degli atleti sotto contratto – Dwight Howard e Derrick Rose prima degli attuali James Harden, Damian Lillard e Trae Young –, oggi la scelta di puntare su una sola linea di calzature e su un numero ristretto di giocatori non appare così penalizzante. Tanto più che la competizione si è spostata fuori dal campo. E lì vince chi per primo e meglio riesce a intercettare le nuove tendenze per poi riprodurle in forma di scarpa: avere un James o un Curry per dimostrarlo è “soltanto” un valore aggiunto.