Come Nike, adidas e Puma stanno reagendo allo stato di emergenza
Essere un big brand sportivo ai tempi del Coronavirus
11 Marzo 2020
Il COVID-19, identificato per la prima volta alla fine dell'anno scorso a Wuhan, in Cina, è stato il tema dominante e trasversale che ha coinvolto dirigenti e investitori che volevano sapere quale impatto avrebbe avuto il virus sui loro dati finanziari e soprattutto sulle pubblicazioni degli utili aziendali, che solitamente vengono ufficializzati tra dicembre e il gennaio dell’anno seguente. Mentre parliamo ci sono già stati 101.000 casi di coronavirus e più di 3.400 morti, motivo per cui molte aziende sono ormai obbligate a rivedere i propri piani, considerando l’effetto che il virus sta avendo a partire dalle catene di produzione fino al consumatore di ogni regione del mondo.
Se per le aziende italiane è ancora troppo presto per valutare, a livello economico, il tragico impatto che questo lungo stop potrà avere, i più grandi brand di abbigliamento sportivo al mondo come Nike, adidas e Puma, hanno invece già avuto modo di toccare con mano un grandissimo calo delle vendite, soprattutto per quanto riguarda il mercato orientale, dove il coronavirus ha già raggiunto il suo punto massimo di espansione verso la fine del 2019. adidas, così come Puma, realizzano quasi un terzo delle sue vendite in Asia, che negli ultimi anni ha rappresentato un importante mercato in crescita per l'industria degli articoli sportivi. A peggiorare la loro situazione c’è anche il fatto che la Cina è anche il principale paese di produzione per entrambe le società.
Puma, società tedesca di proprietà di Rudolf Dassler ha dichiarato che non si aspettava che i propri affari tornassero alla normalità a breve termine, nonostante i segnali incoraggianti che provenivano dal ministero della sanità dello stato cinese verso la fine del 2019, ma nemmeno che i mercati asiatici come Singapore, Malesia, Giappone e Corea del Sud, dove i turisti cinesi viaggiano spesso per fare acquisti, avrebbero registrando un così forte calo delle vendite, segnando una rottura significativa anche verso il mercato europeo. Ciononostante, Puma ha affermato che la maggior parte delle sue fabbriche in Cina sono già tornate a funzionare e che anche la logistica è già tornata in gran parte operativa, con un conseguente ritardo, minimo, sul processo di fornitura globale.
Discorso diverso per quanto riguarda adidas,che ha annullato tutte le spedizioni all'ingrosso a febbraio e ha dichiarato di aver pianificato di eliminare l'inventario in eccesso per il resto del 2020. Mentre la maggior parte delle fabbriche in Cina sono tornate a funzionare, la sua catena di distribuzione ha subìto interruzioni, senza influire particolarmente sul bilancio generale della società. L'amministratore delegato di adidas Kasper Rorsted ha dichiarato che la società ha chiuso il 2019 al massimo storico: "La compagnia non è mai stata più forte sebbene abbia notato che l'epidemia di coronavirus ha portato a un sostanziale rallentamento in Cina. Ecco perché stiamo proiettando circa 1 miliardo di euro di entrate solo nel primo trimestre verso il mercato orientale" ha affermato. "Prevediamo che altre regioni crescano, ma ovviamente la Cina, essendo il 20% delle nostre attività, ha un impatto sostanziale su tutte le nostre attività". Una mossa che sembra prendere spunto dalla prima metà del 2019, quando adidas decise di reinvestire i suoi utili in canali diversi da adidas Originals, che già da tempo riesce ad autosostenersi, ma da cui il gruppo adidas non vuole dipendere.
Nike, invece, fa caso a sé: quasi due settimane fa invece la sede europea a Hilversum, Paesi Bassi, è rimasta chiusa due giorni a causa di un dipendente risultato positivo al covid-19. L'intero headquarter, dove lavorano circa 2 mila dipendenti provenienti da 80 Paesi, sarebbe stato disinfettato durante la notte ma nonostante ciò a partire dal 28 febbraio le autorità sanitarie olandesi hanno segnalato altre 10 infezioni da coronavirus. Nike, che nel frattempo ha registrato un -4,90% sul mercato azionario ed una perdita pari a 17 miliardi di dollari, ha chiuso circa la metà dei suoi negozi in Cina e lasciando aperti in orario ridotto quelli rimanenti, registrano comunque un traffico al dettaglio inferiore alle aspettative. Si tratta di un buco non indifferente, visto che il mercato asiatico ha portato al brand di Beaverton 800 milioni di dollari all'anno, negli ultimi quattro anni.
''Le dinamiche continuano a evolvere e noi, a seconda di come si svilupperanno, daremo aggiornamenti sugli impatti operativi e finanziari sul bilancio del terzo trimestre'', ha dichiarato John Donahoe, presidente e CEO dell'azienda, proseguendo ''A breve termine prevediamo che la situazione avrà un impatto devastante sulle nostre operazioni in China. Tuttavia, il marchio e il suo slancio commerciale nei confronti del consumatore cinese rimangono forti, come dimostra la continua crescita nelle attività digitali''.
Nike ha anche posticipato molti dei drops previsti (che comprendevano due colorways di Air Jordan 5, una Air Jordan 4, una 11 low, una 6 e una 13) a partire dal 25 aprile fino almeno al di 30 maggio, facendoci presumere che il miglioramento della situazione che ci coinvolge potrebbe non avere un breve corso, portando così Nike ad avere una prospettiva di magazzini pieni con un conseguente blocco temporaneo della produzione.