Perché US Women Team ha giocato con la maglia al contrario?
La squadra di calcio femminile è solo l'ultimo esempio di protesta nel mondo sportivo americano
13 Marzo 2020
Dopo i recenti commenti rilasciati dalla US Soccer Team in merito alla richiesta della squadra femminile di ottenere parità retributiva, si sono susseguite una serie di reazioni a catena che han portato alle dimissioni del presidente federale.
Facciamo un passo indietro: settimana scorsa i documenti giudiziari hanno rivelato alcuni degli argomenti su cui la Federazione di Soccer si basava per argomentare come le giocatrici non meritano la stessa paga degli uomini. Tra le affermazioni si parla di "differenze biologiche" che si dice provino che la squadra maschile "richiede un livello più alto di abilità" e che "il lavoro di una squadra maschile ha più responsabilità all'interno del calcio degli Stati Uniti rispetto al lavoro di una femminile".
Megan Rapinoe e il resto della squadra femminile non sono certo rimaste a guardare: due giorni fa, l’11 marzo, la squadra ha giocato una partita di SheBelievesCup e ha scelto di scendere in campo indossando le maglie da riscaldamento al rovescio durante l'inno nazionale, nascondendo il logo della federazione americana in segno di protesta. "Volevamo solo fare qualcosa per mostrare solidarietà non solo a noi stesse ma anche a tutte quelle bambine a cui è stato detto che sono inferiori agli uomini" ha detto Rapinoe. Ciononostante, ogni volta che la nazionale americana femminile entra in campo, mostra a tutti le 4 stelle che rappresentano i quattro titoli di Coppa del Mondo, facendo passare in secondo piano l’aspetto umano rispetto a quello prettamente sportivo. "Quello che facciamo sul campo penso sia potente e stimolante per ogni essere umano, ma l'unica cosa che è veramente visibile sono i nostri successi [le stelle] che non giustificano questo tipo di trattamento. Vogliamo dimostrare che quel tipo di linguaggio è assolutamente inaccettabile’’.
Sembra però, che questo gesto di protesta non sia stato notato - e capito - dai più finchè il presidente della federcalcio americana Carlos Cordeiro ha presentato delle scuse che, evidentemente, non sono bastate a placare gli animi: oggi Carlos Cordeiro si è dimesso giustificando i suoi errori attraverso una lettere pubblicata anche su Twitter.
It has been an incredible privilege to serve as the President of U.S. Soccer.
— Carlos Cordeiro (@CACSoccer) March 13, 2020
My one and only mission has always been to do what is best for our Federation.
After discussions with the Board of Directors, I have decided to step down, effective immediately. My full statement: pic.twitter.com/4B7siuIqcL
La protesta portata avanti da Rapinoe &co. è solo l’ultima di una lunga serie negli sport americani, dove, per altro, i problemi di abusi verso la comunità afroamericana sono sempre stati argomento di discussione. Ecco altre storiche manifestazioni di dissenso davanti agli spalti che hanno lasciato un segno indelebile nella storia dello sport:
COLIN KAEPERNICK
A partire dal 2016, il quarterback dei 49ers, squadra di NFL, ha cominciato ad inginocchiarsi durante l’inno nazionale americano in forma di protesta contro le ingiustizie e oppressioni subite dalla minoranza nera negli Stati Uniti, gesto adottato da numerosi altri giocatori generando discussioni e polemiche, in cui è intervenuto anche il presidente degli Stati Uniti Donald Trump dichiarando che chi si rifiuta di onorare l'inno ''andrebbe licenziato''. Detto - fatto: Colin Kaepernick dal 2017 è senza squadra e solo quest’anno potrebbe ricominciare a giocare.
TOMMIE SMITH E JOHN CARLOS
16 ottobre 1968, Olimpiadi di Città del Messico: gli atleti al primo e terzo posto sul podio dei 200 metri maschili, Smith e Carlos, sollevano il pugno con un guanto nero, per protesta contro la violazione dei diritti degli afroamericani. È l'anno in sono assassinati Martin Luther King e Bob Kennedy. Smith e Carlos sono a piedi scalzi, a simboleggiare la povertà, e le piccole pietre che Carlos indossa al collo rappresentano le vite dei neri americani linciati perché si battevano per la libertà.
MUHAMMAD ALI
Una protesta fuori dal ring che ebbe ripercussioni per anni, trasformando un pugile in un simbolo di lotta civile: nel 1967 Muhammad Ali, da tre anni campione del mondo dei pesi massimi, si rifiutò di arruolarsi per combattere la Guerra del Vietnam in una sua personale guerra allo strapotere dei bianchi. Fu arrestato, processato per renitenza alla leva e privato del titolo. Per i quattro anni successivi non poté gareggiare, ma nel 1971 la Corte Suprema degli Stati Uniti annullò la condanna per poter ricominciare a combattere.
MAHMOUD ABDUL-RAUF
Nel 1996 fece scalpore il gesto del giocatore NBA di Denver (visto anche nella nostra serie A a Roseto nella stagione 2004-2005), nato Chris Jackson, che rimase nello spogliatoio durante l'esecuzione dell'inno americano che lui stesso considerava "un simbolo di oppressione". In seguito l'atleta ottenne di poter pregare anziché cantare durante l'inno nazionale.
LEBRON JAMES
Negli ultimi anni molti sportivi hanno manifestato la propria solidarietà al Black Lives Matters, movimento a sostegno della comunità afroamericana. Nel 2014, LeBron James e altre star dell'NBA, come Kyrie Irving, Kevin Garnett, Carmelo Anthony e Dwayne Wade, durante il riscaldamento indossarono una t-shirt - non approvata dall’NBA - con la scritta "I Can't Breathe" per dare voce alle ultime parole di Eric Garner, afroamericano ucciso con una stretta alla gola da un poliziotto a Staten Island, New York. LeBron e altre star afroamericane non si sono mai risparmiate a favore della lotta contro le discriminazioni razziali, bersagliando sui social Donald Trump e l'Amministrazione Usa.
ARIYANA SMITH
Nel 2014, durante il campionato di pallacanestro femminile NCAA, la Smith fece parlare di sé per aver alzato le braccia durante l'inno ed essersi sdraiata verso il pubblico dove rimase stesa per 4 minuti in segno di protesta per l'omicidio di Michael Brown, diciottenne afroamericano ucciso dalla polizia americana a Ferguson, nel Missouri.