Cos'è andato storto tra le sneakers ed il calcio?
Le signature boots non sono fatte per il rettangolo verde
18 Marzo 2020
Nell'immaginario collettivo, quando si parla di un grail associabile a basket ed al calcio, si viaggia su due binari differenti: per il primo si pensa alle scarpe - senza girarci troppo intorno alle Jordan -, per il secondo si è più portati a pensare ad una maglia storica, magari quella del proprio giocatore preferito ai tempi delle elementari. Eppure sia Nike che adidas agli inizi degli anni 2000 avevano provato a far entrare le scarpe da futsal nel nostro armadietto delle scarpe, ma si rivelò un tentativo debole: la questione è soprattutto di origine strutturale prima che culturale, estetica o relativa alle tendenze, tanto che risulta molto più semplice indossare una scarpa che viene pensata per poter essere utilizzata in campo e fuori già all’inizio della filiera produttiva rispetto ad una scarpa che nasce con i tacchetti.
Per questo motivo una sneaker che arriva dal mondo della pallacanestro risulta più vestibile nella quotidianità rispetto ad una da calcio che risulta sempre e comunque un “adattamento”, perdendo quel carattere di originalità e unicità che la trasformerebbe in un oggetto da collezione o anche solo in un must have.
Una svolta in tal senso sembrava essere arrivata nel 2002 quando, alla vigilia dei Mondiali nippo-coreani, Nike e adidas lanciarono, rispettivamente, la ''Total 90'' e la ''Predator Mania'' che avevano nell’allacciatura – laterale per le prime, coperta dall’iconica linguetta rossa per le seconde – quell’elemento caratterizzante in grado di far funzionare il prodotto anche al di fuori del terreno di gioco, senza farlo risultare una semplice derivazione o, peggio ancora, una copia mal riuscita dell’originale. Eppure nonostante il notevole riscontro in termini di vendite, i brand hanno scelto di proseguire all’insegna della discontinuità, tornando a concentrarsi esclusivamente su modelli per il campo, senza preoccuparsi di conquistare quella fetta di pubblico interessata più all’estetica della scarpa che alla sua funzione.
Un’altra differenza sostanziale tra una basketball-inspired ed una football-inspired sono le cosiddette signature shoes, scarpe che attraverso l’associazione diretta con il giocatore (per mezzo del naming, per esempio), ne fanno l’unico testimonial in grado di rispecchiarne le caratteristiche in campo. Questa dinamica funziona molto bene per una scarpa da basket di qualsiasi brand, quanto è inutilizzata nel mondo calcio: per esempio, il 19 febbraio Nike ha presentato le nuove ''Mercurial Dream Speed 2'' attraverso i propri canali social e su Instagram la domanda più ricorrente riguardava la data di uscita delle signature boots di Cristiano. Una domanda banale ed erronea visto che la stella della Juventus è un calciatore che può dire di aver legato il proprio nome ad una scarpa – le ''Mercurial CR7'' – senza tener conto che la ''Mercurial'' fosse un modello già esistente e non un modello creato ad hoc per replicare le peculiarità dell’uomo di Madeira. L’unico che può dire con certezza di aver avuto una signature vera e propria è Leo Messi, che, con le ''Messi15'' inaugurò un modello totalmente nuovo per design e struttura, privo del tradizionale richiamo con le tre strisce e con una tomaia personalizzata pensata per adattarsi alla forma del piede dell’argentino, per migliorarne il tocco di palla, un principio che ha poi ispirato la successiva linea “NEMEZIZ” di stampo futurista.
Ma Messi e Ronaldo sono un’eccezione perchè la regola è quella di una profonda differenza con il mondo della signature shoes NBA, con tanti modelli creati appositamente partendo da zero. Che si tratti di marchi storici – Puma con Aguero, Griezmann e Lukaku – o di realtà emergenti – Under Armour con Depay – la scelta è sempre stata quella di creare diverse colorways PE (player exclusive) sulla base di un layout preesistente, senza che queste sfocino in veri e propri elementi di novità, tali da far pensare, in maniera pretestuosa, che quella scarpa possa essere calzata solo da quel calciatore.
Poi c’è l’esempio spartiacque, quello delle “Predator” di adidas: fin dai tempi delle mitiche “Accelerator”, il modello è stato ridisegnato più volte per accompagnare le gesta di gente come Zidane, Beckham, Del Piero, Gerrard, Lampard e Pogba, senza che l’azienda tedesca decidesse di fare di uno di loro il vero e proprio volto della campagna pubblicitaria, nonostante col tempo l’associazione tra la silhouette e l’ex numero 7 inglese sarebbe diventata automatica. I motivi sfuggono ulteriormente se si pensa che nel 2017 le “Predator Accelerator DB” di Beckham, un’icona di stile senza tempo, riscossero un successo incredibile nonostante il calciatore si fosse già ritirato da quattro anni.
Probabilmente è proprio l’esigenza di una particolare riconoscibilità tecnica il vero motivo per cui è difficile parlare di signature shoes, in un contesto in cui i principali esponenti, in fondo, si somigliano un po’ tutti. Beckham, per esempio, rimarrà per sempre nell’immaginario comunque per merito delle sue punizioni con traiettorie impensabili, skill che il resto dei centrocampisti difficilmente riusciva a replicare con tale costanza, motivo per cui l’associazione ''Predator'' - ovvero la scarpa con cui tirava quelle punizioni - e DB7 si è fortificata sempre di più nel tempo.
Quando si parla di stile off-the-pitch o off-the-court invece, si aggiunge il fatto che i calciatori nell’era post-Beckham hanno “perso il treno della moda”, facendosi raggiungere e superare dagli atleti americani che, soprattutto per via dello streetwear - parte integrante della loro cultura da prima che lo streetwear stesso imponesse le proprie regole al mondo fashion - hanno iniziato a fare tendenza, portando la categoria ''calciatori'' a non essere più la fonte di ispirazione primaria per i teenagers.
Il processo di creazione e produzione di una scarpa è lungo e complesso: serve un’idea di base su colori, forme e materiali, serve competenza nel processo tecnico di assemblaggio, una buona dose di creatività e inventiva nella fase di sperimentazione. Serve, soprattutto, un testimonial che sia unico nel proprio genere, che sia in grado di accendere la fantasia dei tifosi e che sappia essere punto di riferimento per le generazioni del futuro, non basta essere calciatori in grado di consolidarsi ad alti livelli.