Storia ed estetica del polsino nel calcio
Da Materazzi ad Adriano, passando per le proteste di Pogba e Karimi
20 Marzo 2020
Nella prassi di vestizione dei calciatori esiste un particolare meno sfarzoso di altri, ma decisamente in voga negli ultimi anni: il polsino. Una moda silenziosa iniziata nei primi anni 2000 e scaturita più da necessità estetiche che pratiche. Uno di quei gadget cui sarebbe facile fare a meno, ma che molti considerano ormai imprescindibile, fratello di tutti quegli addobbi di dubbia utilità come calzamaglie, guanti e fascette, che fanno impazzire giocatori di qualità o particolarmente estrosi: Payet, Di Maria, Lautaro, Neymar, David Luiz e chi più ne ha più ne metta.
Uno dei primi sbandieratori del polsino fu Marco Materazzi, che all’Inter ne fece un vero e proprio marchio di fabbrica. Uno a destra e uno a sinistra, per le partite più importanti li faceva personalizzare: da quelli bianchi indossati nel derby vinto del 2006 a quelli nerazzurri della finale di Madrid 2010, fino ai più classici, con i nomi dei tre figli scritti sopra o il tricolore in Nazionale. Polsini in spugna sottile, di tutt’altro spessore rispetto a quelli da tennis. In quegli anni non fu l’unico ad indossarli. Un altro amante dei polsini in spugna fu Tomáš Rosický, che all’Arsenal li utilizzava tinta unita, al massimo a bande biancorosse: pensate che Marco Reus anni fa lo elesse suo idolo e dichiarò di avergli copiato tutto, “perfino i polsini”.
Ma quella del polsino in spugna è stata una moda durata più o meno un decennio, una sorta di parentesi nella più longeva, e ancora attuale, storia del polsino in nastro adesivo: oggi i giocatori usano solo quello. Qualcuno dice per prevenire eventuali slogature, altri per coprire braccialetti di particolare valore: in realtà il nastro al polso non è altro che un discutibile tentativo di distinzione dalla normalità. Non a caso uno come Adriano, l’ultimo dei “normali”, iniziò a usarli con una certa regolarità già nel 2002, a Parma, per poi renderli pezzo irrinunciabile all’Inter. Mentre Francesco Coco, negli stessi anni, li portò addirittura in Spagna, al Barcellona.
Nati puramente per estetica, alcuni polsini hanno persino assorbito un significato simbolico. A partire dal 2006, quando la Juve, al debutto in Serie B , scese in campo con un polsino con banda tricolore, quasi a rivendicare - nemmeno troppo velatamente - il titolo tolto l’anno precedente. Emblematica l’immagine di John Elkann in tribuna, col polsino in bella vista ancorché in camicia.
Tre anni più tardi l’iraniano Ali Karimi - ex Bayern Monaco, detto “Il Maradona Asiatico” - giocò contro la Corea del Sud indossandone un paio verde, colore simbolo dell’opposizione al regime dell’allora presidente Ahmadinejad. Pare che quattro emissari del governo gli chiesero di toglierli a fine primo tempo, ma lui rispose di no elevandosi per una notte a eroe nazionale.
L’ultimo polsino iconico è quello sfoggiato da Paul Pogba nel dicembre 2018, in un 4-1 al Bournemouth appena successivo all’ennesimo episodio di razzismo in Serie A, protagonista Kalidou Koulibaly. Il francese scese in campo con un doppio polsino, uno bianco e uno nero, mostrando la scritta “NO” nell’esultanza per il suo gol. Un no to racism emblematico, scritto letteralmente nero su bianco. Storie di polsini diventati simboli, e non solo di estetica.