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Come si disegna un gruppo "Ultras"?

nss sports lo ha chiesto ad Antonello Colaps, di Dopolavoro, che ha realizzato tutte le grafiche di "Ultras"

Come si disegna un gruppo Ultras? nss sports lo ha chiesto ad Antonello Colaps, di Dopolavoro, che ha realizzato tutte le grafiche di Ultras

Prima dei cori, prima della mentalità e ancor prima di quel complesso sistema di regole che rende il mondo degli ultras una delle ultime subculture in vita, il bigliettino da visita di ogni gruppo ultras è la sua estetica.
Striscioni, bandiere, loghi, font e pattern: le curve italiane usano dei codici grafici ben precisi, ispirazioni a volte difficili da comprendere e soprattutto coerenza.
Come si agisce, quindi, quando bisogna replicare tutto questo heritage culturale in un film? nss sports ha parlato con Antonello Colaps, di Dopolavoro Napoli, che ha realizzato tutte le grafiche di ''Ultras'', il primo film di Francesco Lettieri, uscito su Netflix lo scorso 20 marzo su Netflix.

 

In ''Ultras'' hai lavorato per ricreare l’intera storia grafica di un gruppo di ultras napoletani. In che modo ti sei approcciato a questo mondo? 

La storia estetica del movimento Ultras inizia con delle derivazioni dall’immaginario dei movimenti politici degli anni ’70. Ne sono testimonianza nomi e lettering di molti gruppi storici: Commando, Brigata, Fedayn e via dicendo. Con il fallimento dei percorsi rivoluzionari, negli anni ’80 iniziarono quindi ad emergere sulle gradinate nuove generazioni che aderivano a diverse sottoculture, ognuna delle quali con una propria estetica di riferimento che veniva tradotta nel movimento. Iniziarono a comparire, sulle gradinate, il volto di Alex di Arancia Meccanica, quello di Bob Marley, Andy Capp, I Dead Kennedys, i Queen e i Metallica, e poi ancora nativi Americani, Vichinghi, riferimenti alle sotto-culture Mods e Skinhead per citarne solo alcune. Colori, immagini e tipografie in curva si andarono moltiplicando e in pratica qualsiasi icona culturale o underground poteva diventare rappresentativa ed utile a rimarcare una differenza identitaria. Negli ’90 poi la politica ricominciò ad esercitare una certa influenza sul movimento, ed anche l’estetica ne risentì. Guardando alla storia reale, esteticamente gli Apache sono in un certo senso più un gruppo di inizi anni ’80, mentre gli NNN sono più anni ’90. Ma per il tipo di film non era possibile inserirli in quei contesti storici, e sono stati traslati. 

La prima fase è stata quindi di ricerca culturale e visiva. Qui mi sono reso conto anche che in tutta Italia i gruppi si emulavano tra di loro, mescolando spesso però le carte e gli elementi. Non è un caso che Fedayn di Napoli (1979) e Roma (1972) abbiano tipografie analoghe, così come quasi uguali sono il Leone dei Vecchi Lions (1992) e quello della Fossa Milanese (usato dal 75/76). Casi simili ci sono in tanti loghi e lettering, sia in ambito di tifo nazionale che europeo. Oltre a ciò, infine, c’è anche un ultimo dato tenuto che ha radicalmente influito sull’approccio. I gruppi Ultras sono sempre stati, e spero sempre saranno, in primis gruppi di persone che condividono passione e amicizia. Moltissime tifoserie organizzate, oltre ad aver definito storicamente le proprie estetiche in base a riferimenti politici o iconici, hanno sempre assecondato una sana auto-referenzialità, rappresentandosi per quello che di fatto erano insieme. Non mi è venuto difficile immaginare che, per citarne solo alcuni, gli Skonvolts Cagliari, le Teste Matte (Napoli), i SAB (Sempre al Bar - Monza), gli Astra Alcool Spal e il Gruppo Oppini Sansepolcro abbiano deciso di chiamarsi così per una semplice e genuina attitudine alla goliardia.

Quando mi sono reso conto di avere tutto questo panorama visivo a disposizione, la scelta che con Lettieri ci siamo imposti è stata di ''fare come se'': abbiamo ''fatto come se'' Sandro, Barabba e gli altri avessero deciso di chiamare il gruppo Apache per un motivo che potevano sapere solo loro, come gruppo di amici. Le stesse modalità potevano essere verosimili anche nella pratica dell’ideazione del proprio logo e così per il resto. Stesso identico approccio e metodologia per gli NNN, Mentalità Flegrea, Brescia e Roma assecondando, in tutti questi casi e di buon grado, anche una modalità di lavoro rilassata e goliardica di chi credo abbia contribuito, oltre che al nostro divertimento, anche a rendere tutto il progetto credibile.

Che tipo di ricerca hai fatto per lavorare i font di graffiti e striscioni dei gruppi Ultras?

Per quanto riguarda la tipografia, il primo step è stato di raccolta e collezione. Per attitudine personale mi sento più a mio agio nel lavorare con gli alfabeti che con le illustrazioni. Ho iniziato perciò creando un archivio di tipografie realmente utilizzate nel mondo del tifo, approfittando della ghiotta occasione per mettere sul tavolo anche alcuni font con cui avevo sempre voluto lavorare ma che in ambito commerciale sono di difficile utilizzo. Sceneggiatura alla mano, è risultato poi abbastanza semplice intuire quale fosse più appropriato ad un tatuaggio, all’identità di un gruppo o ad un contesto rispetto a un altro, etc. Menzione a parte per No Name Naples, i cui glifi sono stati disegnati ad hoc partendo da alcune scritte dei gruppi partenopei, in particolare di gruppi della mia zona. 

 

Da dove arrivano le ispirazioni per i soggetti - tra tutti il polpo di ''mentalità flegrea''! - degli sticker e dei murales che hai realizzato?

Sapevamo già che Mentalità Flegrea avrebbe avuto un ruolo marginale nel film, ma andava comunque definita un’estetica anche qui molto caratterizzata e differente dalle altre due: non sai mai quali dettagli saranno visibili e quali no alla fine del film. Con Francesco Lettieri abbiamo immaginato un gruppetto di amici con una passione viscerale per la birra ghiacciata, l’impepata di cozze e l’insalata di polpo: un po’ come noi. I disegni vengono da alcuni mosaici di epoca romana, anche se sia i materiali visivi sia i personaggi del gruppo non si sono visti granché (Antonella Mignogna, la costumista, ne soffre ancora, erano dei veri Mods Puteolani, stilosissimi). 

Più in generale e per tutti gli altri materiali visivi, ho fatto valere lo stesso discorso sull’approccio metodologico. Ho disegnato e raccolto immagini, citazioni, ispirazioni, elementi che avessero dei rimandi alla cultura da stadio, a quella pop o a quelle nostre personali. Da T.V.O.R. Teste Vuote Ossa Rotte nome di una vecchia fanza Hardcore-Punk degli anni ’80, al Vecchio Conio di Maccio Capatonda messo sotto la faccia di Carmando, dalla composizione in rosso, blu e giallo di Piet Mondrian allo Skeletor di Greyskull, da una vecchia insegna di PALINURO ai Joy Division, tutto è stato messo sul tavolo smontando e rimontando gli elementi fino a trovare una quadra che funzionasse per il film ma che fosse anche realistica nel suo essere genuinamente autoreferenziale. 

Per l’occasione ho anche preparato anche una playlist.

Il molo apache è uno dei protagonisti del film, lì dove graffiti e Vesuvio trovano un incastro perfetto. Come avete lavorato a mescolare le due cose? E più in generale, quanto è difficile combinare gli elementi di una città esteticamente così caratterizzata come Napoli? 

La murata al molo è stata realizzata già in partenza vecchia e cupa, consumata dal vento e dalla salsedine, dal tempo trascorso. Doveva essere insomma coerente con la condizione degli Apache. Meno colori e più scuri possibile, poche linee pulite. L’incastro perfetto con il contesto credo sia dovuto un po’ a questi pochi trucchi e molto alla posizione e alla natura della location stessa, ma questo credo valga sempre, a Napoli.

Riguardo al lavorare qui, non credo sia possibile ragionare per singolarità. Napoli è unica è vero, come unici sono però anche moltissimi luoghi nel mondo. Certo le diverse anime della città, così come il Vesuvio e le isole lì sullo sfondo, sono elementi difficilmente eludibili nel quotidiano, sia mentalmente che visivamente. Ma tolte queste e tante altre condizioni oggettive, credo sia possibile lavorare, qui come altrove, approcciando in modo logico e sistemico. Fare ricerca (tanta), sforzarsi sempre di cercare i nessi causa/effetto ed essere sempre consapevoli che tutto quello che facciamo si andrà ad inserire e farà poi parte in un contesto molto più ampio. Sarà che sono figlio di questa terra, ma non ho nessuna difficoltà a muovermi nella complessità. Siamo nani sulle spalle di giganti, e di un vulcano. 

Hai lavorato anche alle grafiche di alcuni abiti di scena, come le t-shirt nostalgiche di Barabba: in quel caso che tipo di ricerca estetica hai fatto? 

Quando è stato chiesto il mio supporto ho provato a lavorare anche con gli altri reparti utilizzando lo stesso approccio appena descritto. In Barabba, così come negli altri personaggi c’è tutto un mondo. Lui vive ancora con la madre, è l’unico a girare in Vespa, non veste firmato ma anzi si fa da solo le maglie, opponendosi come può al cambiamento: con un po’ di infantilismo ma in modo puramente romantico. Questa romantica nostalgia, la stessa che forse canta Dalla in Caruso, è anche un sentimento che fa purtroppo parte, oggi più che mai, dell’immaginario Ultras: la nostalgia di quel ''vecchio calcio'', non dominato solo da interessi economici, sembra ormai essere un sentimento comune a molti. Si sta lentamente - e sembra inesorabilmente - passando dall’essere il dodicesimo uomo in campo all’essere un numero X di abbonati alla Pay tv. Per questo in molti ormai si avvicinano anche ad altri sport o alle categorie minori. Non è stato difficile trovare dei riferimenti e interpretare questo sentimento di nostalgia per gli anni ’90, dal Subbuteo alle audiocassette Mixed by Erry, per finire con un quanto mai attuale ''Odio Eterno al Calcio Moderno''. 

 

Qual è dunque la differenze principale tra lavorare alle grafiche di un film e quelle di un disco o un festival musicale? 

In un film tutto quello che entra nell'inquadratura è pensato per essere lì, in funzione della scena e di quello che vi accade. Molto spesso sono dettagli, oggetti e immagini sfocate sullo sfondo. Parlando di ''Ultras'' ad esempio: quanti si sono accorti che nella sala da biliardo sulle TV ci sono le schermate delle quote di un sito di scommesse? Lo stesso vale per le etichette delle bombe carta o delle birre, per il logo del caseificio sui furgoni della trasferta e così via per una miriade di altri elementi che tanto hanno a che vedere anche con il graphic design. Curare questi dettagli è un modo per rendere la scena più credibile agli occhi dello spettatore. 

Per me quasi tutti questi elementi sono diventati una scusa per inserire degli inside-joke, ma anche un pretesto per fare ricerca visiva senza il compromesso commerciale in ambiti diversi da quelli del mio lavoro abituale.  

Nella fase di preparazione e durante le riprese invece il piano commerciale è completamente assente, esistono solo la sceneggiatura e le esigenze dei reparti. I compromessi che si raggiungono sono sempre su un piano di necessità e in funzione della narrazione cinematografica - e quindi artistica - non del mercato. 

Quanto è difficile far ''scomparire'' il proprio lavoro all’interno di un set, rendendolo comunque un lavoro aggiunto?

Essendo il mio primo progetto per un film, mi sono molto lasciato guidare e ho imparato tantissimo da chi ne sapeva più di me, in primis Marcella Mosca, la scenografa e Gianluca Palma, il DOP. Ho sempre avuto consapevolezza che la mia opera fosse parte di un tutto, con funzioni ben precise. Tra creativi e designer ci si lamenta spesso di accurati studi fatti su colori e tipografie vanificati dal classico giudizio tranciante del cliente: ''Si ok capisco ma…non mi piace''. 

Sul set invece, quando è stato necessario cambiare un colore, uno stile, un disegno, è stato sempre perché questo funzionasse meglio a favore di macchina, perché si integrasse nel modo più appropriato. E poi non mi sento un’artista, non credo di avere qualcosa di necessario e urgente da dire al mondo, né di dover rivendicare alcuna autorialità. Posso solo essere contento se parte del mio lavoro è venuto sfocato, ma ha contribuito a dare forza e struttura all’immagine finale.

 Photo credits: Glauco Canalis & Dopolavoro