Allen Iverson e l'evoluzione dello streetwear
Da Hampton all'introduzione del ''dress code'', perchè AI è stato così influente per l'NBA di oggi
07 Aprile 2020
Il 6 giugno del 2001, a poche ore dal suo ventiseiesimo compleanno, Allen Iverson si presenta nella sala stampa dello Staples Center per la conferenza post gara-1 delle NBA Finals. Ne ha appena messi 48 ai Los Angeles Lakers, in uno degli upset più clamorosi della storia delle Finali, con tanto di giocata iconica che contribuirà a far entrare Tyronn Lue nella storia dalla parta sbagliata, indipendentemente dal risultato di quella serie: «Tutto ciò che conta è lasciare tutto quello che hai sul campo: è l’unico modo che hai per tornare negli spogliatoi e riuscire a guardarti allo specchio senza rimpianti». Indossa un paio di occhiali da sole che non avrebbe sfigurato in Matrix, una maglia dei Philadelphia Eagles di almeno due taglie più grandi, una bandana nera con il suo logo - lo stesso che compare sulle sue signature shoes by Reebok -, un vistoso crocifisso d’argento che fa pendant con il diamante al lobo destro: uno stile inconfondibile per quello che, in quel momento, è l’atleta più famoso del mondo.
Uno stile che, a seguito del tremendo “Malice at The Palace”, il commissioner David Stern avrebbe messo ufficialmente al bando nell’ottobre 2005, imponendo ai giocatori un dress code basato su uno stile business casual in opposizione all’iconografia del ghetto sdoganata attraverso bandane, snapback, gioielleria superflua e jeans a vita bassa. La prima voce fuori dal coro – insieme a quelle di Stephen Jackson e Paul Pierce – contro l’iniziativa di Stern sarebbe stata, naturalmente, proprio quella di AI: «Questo modo di vestire ha caratterizzato la mia generazione. Solo perché decidi di far mettere lo smoking a un tizio non vuol dire che poi diventerà un bravo ragazzo. Puoi far indossare un bell’abito a un assassino, ma resterà sempre un assassino».
Non poteva essere altrimenti. Fin dal suo esordio nella lega, Iverson aveva cambiato la percezione del termine icona associato a un giocatore NBA, in una raffigurazione che trascendeva il campo e ciò che era in grado di fare al suo interno: quelle treccine, quei tatuaggi a coprire quasi per intero le braccia e il resto del corpo, quello sguardo tipico di chi non ha paura di niente perché le ha già viste tutte nei quartieri popolari di Hampton, erano i tratti salienti di una nuova epitome del cult. Iverson era uno dei giocatori più riconosciuti e riconoscibili della lega non tanto per il suo modo di giocare, ma per il suo essere un’icona pop molto più vicina alla realtà di riferimento dell’appassionato NBA medio: per i tifosi – soprattutto quelli più giovani e soprattutto afroamericani – ma anche per tanti altri giocatori di quella generazione, era infatti molto più facile, naturale e immediato riconoscersi nello stile “thuggish” di “The Answer”. Perché era anche il loro nella vita di tutti i giorni.
Un primato culturale che Iverson ha sempre pagato a caro prezzo, con i pregiudizi nei suoi confronti che, spesso, andavano oltre le sue effettive responsabilità: «Non immaginate quante volte in passato mi sia trovato a dovermi giustificare per il mio abbigliamento e per i miei capelli. La gente diceva che non mi vestivo da professionista e che, quindi, non avrei mai potuto comportarmi come tale. Come se qualcuno avesse mai commesso un crimine solo perché portava i capelli in un certo modo. Ok sono giovane, sono nero e mi vesto in quel modo per fare cosa? Semplicemente per andare a fare quello che so fare», scriverà nel 2018 su The Players’Tribune, quasi a voler rivendicare ciò che ha significato l’essere stato sempre e solo se stesso, anche nel look perfettamente corrispondente allo stereotipo del “bad guy” protagonista dei videoclip di Notorius B.I.G., 2Pac, André 3000, Coolio e Redman.
«Quando la mia carriera sarà finita voglio essere in grado di guardarmi allo specchio e dirmi che ho fatto a modo mio», disse un giorno in risposta a chi continuava a volerlo includere in una categoria di giocatori cui non poteva, anzi non voleva, appartenere: perché lui voleva essere semplicemente Allen Iverson, dentro e fuori dal campo, senza la necessità di seguire alcun modello e senza bisogno di doverlo diventare a sua volta. E quel look era un modo per ricordarlo a tutti. Ma se da una parte AI non sentiva la necessità di essere un modello d'ispirazione, dall'altra non sapeva che lo sarebbe diventato non solo dal punto di vista sportivo ma anche a livello stilistico: giusto un paio di mesi fa il direttore creativo di Fear of God Jerry Lorenzo ha voluto omaggiarlo attraverso una serie di scatti-replica del fotografo Gary Land, già autore del libro fotografico ''The Iverson book'', per sottolineare l'importanza che l'ex numero 3 di Philly ha avuto nel percorso che lo ha portato a diventare designer.
Alla fine avrebbe avuto ragione lui. Negli anni, complice anche un progressivo allentamento delle restrizioni previste dal dress code, il look delle superstar NBA è diventato ancor di più una smaccata espressione di personalità invece che il simbolo dell’uniformità cromatica e stilistica voluta da Stern: “Quando hanno vietato un certo look si sono resi conto che, comunque, tantissimi ragazzi stavano provando ad assomigliarmi. In realtà credo che avrebbero voluto farlo già da prima, ma in molti si sono sentiti a disagio per timore che un certo tipo di abbigliamento gli avrebbe potuto causare qualche problema all’interno della lega”. Lo stile “nerdchic” di oggi, che ha in Russell Westbrook il massimo esponente ed è caratterizzato da camice a maniche corte, occhiali privi di lenti e pantaloni multicolor stretti in vita e alle caviglie, non è altro che la diretta evoluzione di quell’anticonformismo che era proprio di Iverson e che la NBA aveva cercato di limitare nei suoi richiami all’hip-hop e al gangsta rap.
E poco importa che, per sua stessa ammissione, il diretto interessato abbia confessato che non si vestirebbe mai come i suoi epigoni attuali – «Ad ognuno il suo e lo rispetto. Ma, a questo punto, un certo tipo di dress code sarebbe necessario anche per alcuni di questi ragazzi: sono scandalosi»: l’influenza di Iverson non è nell’adesione ai nuovi canoni di eleganza riferibili a un contesto NBA, ma nell’aver spinto le nuove generazione a reinventare e reinventarsi alla ricerca di una libertà espressiva e di un proprio modo di essere off the court che in qualche modo rappresentasse la varietà di stili di gioco che caratterizza questa fase storica di “The League”. Perché, in fondo, le signature moves non sono solo quelle sul parquet.