Perchè Jordan ha detto che anche i repubblicani comprano sneakers
Sam Smith svela cosa c'è dietro una delle frasi che ha fatto la storia
17 Aprile 2020
Sam Smith è stato uno dei pionieri del giornalismo americano, uno di quelli che nasce con penna e microfono in mano. Uno "di razza" lo avrebbero definito i suoi colleghi italiani tra gli anni '70 e gli anni '90. È passato alla storia, quella sportiva, per tanti motivi: approccio, rapporto con i giocatori, ma soprattutto interviste e un libro in particolare. Quel libro si intitola "The Jordan Rules", una sorta di raccolta di episodi della stagione 1990-91 di Jordan e dei suoi Chicago Bulls in cui vengono "svelati" lati privati della franchigia dell'Illinois e lati oscuri del leader tecnico, carismatico ed emotivo della squadra.
Le controversie che suscitò sono ancora oggi oggetto di dibattito, ma una cosa è certa: da quel momento il rapporto unico che Smith instaurava con i giocatori cambiò. O almeno, cambiò specialmente il rapporto con un giocatore e non occorre fare "nomi e cognomi". La memoria storica di Sam Smith però è troppo preziosa: troppi gli aneddoti che potrebbe ancora raccontare e troppi i momenti che ha vissuto accanto alle star dei Bulls, essendo la penna di riferimento del giornale "The Chicago Tribune" per gran parte della dinastia Jordan.
Senza voler fare spoiler su "The Last Dance" - in arrivo su Netflix da lunedì 20 - Sam Smith e il suo bagaglio di esperienze sui Bulls sono all'interno del documentario prodotto da ESPN. Nelle ultime ore Sam ha scritto, e per quanto possa sembrare assurdo lo ha fatto sul sito dei Chicago Bulls. "Never expected that" e come dargli torto.
Smith ha raccontato come nasce la sua collaborazione con i produttori e si è soffermato su una delle storie più affascinanti - e controverse - che avvolgono il mito di MJ. La frase "anche i repubblicani comprano sneaker" Sam la annovera tra le frasi più famose della storia americana, paragonandole scherzosamente a frasi pronunciate da personaggi come Abraham Lincoln, Patrick Herry ("Dammi la libertà o la morte", Teddy Roosevelt o Martin Luther King. La storia - o almeno la versione di Smith - dietro quella frase è venuta alla luce, ma parte da lontano per capire cosa c'è dietro quella singola frase, troppe volte non compresa fino in fondo.
"Ho avuto un buon rapporto con Jordan scrivendo dei Bulls per The Chicago Tribune negli anni '80. Era molto divertente essere sempre in giro per seguirli. The Jordan Rules sospetto sia stato raccontato nel documentario. Una volta pubblicate, però, la nostra relazione è cambiata. Io rimasi al mio posto e Jordan rimase professionale e rispettoso perché era quello che era. Non ci furono più tante battute, come quella sulle scarpe"
Per Smith, quello che più manca nella storia della quote è la contestualizzazione storica, vera discriminante e vera chiave di volta per capire quanto fossero giuste le critiche che il mondo NBA (passato, attuale e futuro) ha rivolto a Michael Jordan.
"Per prima cosa, si devono considerare i tempi. È un po' come se volessimo giudicare con gli standard di oggi un personaggio come Thomas Jefferson. L'NBA era nei guai nei primi anni '80. Non stava finendo fuori mercato, ma gli affari non andavano bene. Il razzismo e l'emergente cultura della droga erano problemi molto complessi. A questo aggiungiamo la rivalità tra NBA e ABA, che non giovava né all'una né all'altra. Ormai si era ridotto tutto a 'dirigenti bianchi' e 'giocatori neri' ed era uno stereotipo che andò avanti per un po' di tempo. L'NBA era considerata pochissimo: le partite andavano in seconda se non in terza serata, le finali di conference si giocavano in contemporanea. Tutto questo fino all'arrivo di David Stern, l'uomo che evitò il fallimento di molte squadre e del sistema intero, grazie al salary cup e a delle rigide regole finanziarie. Stern garantì contratti a tutti i giocatori, ma a determinate condizioni. Tra queste c'era la riduzione al minimo dei commenti sulle questioni controverse dell'attualità dell'epoca. In pratica Stern chiedeva ai giocatori di essere solo giocatori. Richiesta difficile se, ad esempio, nella Lega ci sono giocatori molto attivi socialmente come Kareem Abdul-Jabbar, uno che ha boicottato le Olimpiadi del 1968 per questioni razziali"
Quando un reporter viene assegnato ad una squadra, diventa praticamente parte integrante del team: ha gli stessi ritmi, segue i loro programmi, viaggia con la squadra in trasferta. Insomma, si istaura un rapporto tra giocatori e giornalisti. Le due miscele chimiche vengono a contatto, alcune riescono a vivere in simbiosi mentre altre creano un'esplosione. Smith e Jordan hanno vissuto entrambe le fasi. Jordan conosceva il lavoro Smith, Smith sapeva che Jordan adorava la relazione "dare-avere" con i media.
Prima di affrontare l'episodio clou, Smith fa un excursus professionale non di poco conto e che Jordan conosceva. Il giornalista del Chicago Tribune aveva avuto una carriera anche nella politica, ricoprendo il ruolo di reporter congressuale alla fine degli anni '70. La politica era un po' rimasta nella sua vita, anche se aveva deciso di intraprendere la carriera sportiva. Durante la campagna elettorale per il Senato in North Carolina, Smith faceva il tifo per Harvey Gantt, l'uomo che chiede a Jordan di "scendere in campo" nella lotta contro il candidato repubblicano Jesse Helms (l’uomo che si era opposto alla proposta di rendere il compleanno di Martin Luther King una festa nazionale e che peggiorò i rapporti tra USA e Cuba). Jordan aveva scelto di non schierarsi e di non supportare in alcun modo Gantt, spiegando di non essere interessato alla politica e di non saperne granché in materia di campagna elettorale.
Stando a quanto riportato in "Second Coming: The Strange Odyssey of Michael Jordan", opera del 1995 di Sam Smith, il giornalista attribuisce ad un vago "amico di MJ" la frase in questione: "Anche i Repubblicani comprano le scarpe", una dichiarazione talmente controversa da portare lo stesso Smith a modificarla nella versione più famosa, sostituendo la parola "scarpe" con "sneakers".
"Jordan ha sempre mostrato un carattere estremamente competitivo e non perdeva occasione per farlo vedere. Voleva sempre avere l'ultima parola. Sempre. Non amava tirare prima delle partite, detestava gli spettacoli come quelli che oggi si vedono con Steph Curry mentre palleggia nel riscaldamento. Preferiva impegnarsi verbalmente, sfidare chi aveva davanti. Sembrava la competizione di cui aveva bisogno per prepararsi alla partita. […] Come quella volta stavo facendo il tifo per Jesse Helms e quella corsa al senato della Carolina del Nord. Jordan sapeva quanto l'NBA avesse chiesto ai giocatori di stare alla larga da questo genere di cose. Ma lo spirito competitivo era più forte di lui e quando ci trovammo a parlare di quella cosa voleva ancora una volta l'ultima parola. E la sua ultima parola fu quella: 'Republicans buy shoes too', Anche i Repubblicani comprano le scarpe".