Perché in Italia non riusciamo a prendere sul serio il razzismo
E di come le parole di Gasperini sono una parte del problema
09 Maggio 2023
È passato poco più di un mese dagli insulti razziali a Romelu Lukaku, con relativa espulsione (poi ritirata) dell’attaccante dell’Inter con il secondo giallo comminato per aver esultato in modo provocatorio verso la curva avversaria, ed ecco che il triste copione si ripete stanco a Bergamo. Questa volta è stato il calciatore della Juventus Dusan Vlahovic ad essere bersagliato da insulti razzisti riguardo la sua nazionalità serba, iniziate dopo un confronto in campo con l’atalantino Maehle. I cori, che si udivano distintamente anche dalla televisione, erano talmente fitti da spingere il direttore di gara Doveri ad interrompere la gara, come da regolamento. Subito dopo però la partita è ripresa senza che i tifosi bergamaschi, nonostante le richieste di alcuni giocatori sotto la curva, smettessero di insultare l’etnia di Vlahovic. Poi nei minuti di recupero, causati in parte anche dalla sospensione del gioco dovuta ai cori, il giocatore serbo in contropiede con un sinistro chirurgico trova il raddoppio bianconero e non riesce neanche ad esultare che Doveri lo ferma come anticipando la possibile reazione di Vlahovic e in seguito lo ammonisce. Come fatto per Lukaku, la vittima è diventata quella da punire.
Un comportamento ricorrente, che dimostra come la teoria delle poche mele marce in realtà sia una codarda lavata di mani rispetto al gigantesco problema con il quale il calcio italiano non ha neanche iniziato a fare i conti. Nonostante le notevoli parole di facciata infatti, ogni volta che si ripropone il tema del razzismo in uno stadio italiano, quello che ferisce maggiormente sono i toni e le dimostrazioni che seguono. Che accompagnano l’ignoranza e la viltà di parte delle persone che si recano allo stadio solo per insultare i calciatori avversari, con la stessa inciviltà mascherata spesso da peloso paternalismo o rispetto pedissequo delle regole. Esattamente quello che ha mostrato l’allenatore dell’Atalanta Gasperini che, forse per proteggere i propri tifosi, a fine partita davanti alle telecamere si è arrampicato sui proverbiali specchi proponendo un distinguo tra insulti e razzismo e sottolineando come nella sua squadra giochino vari calciatori che provengono dall’area balcanica come Pasalic, Djimsiti, Ilicic, Sutalo.
Il discorso di Gasperini, non nuovo a questo tipo di uscite, corrobora un pensiero molto comune nel calcio italiano, quello che cerca sempre di nascondere la polvere sotto il tappeto, di ripararsi dietro la burocrazia, di spartire le colpe tra vittima e carnefice con salomonica precisione. Un teatrino abusato e stanco, che rivela tutta l’ignoranza e la mediocrità della catena di potere in Italia, che avalla continue campagne di sensibilizzazione ma al momento di metterle in pratica, quando davvero servirebbe una presa di posizione vera e coraggiosa ricomincia con la messa in scena dei se e dei ma. D’altronde è difficile aspettarsi molto da una Lega calcio che lancia delle iniziative come quella delle scimmie realizzate dall'artista Simone Fugazzotto, uno dei momenti più surreali del calcio italiano, che dimostra come non ci siano proprio gli strumenti intellettuali e emotivi per simpatizzare con le vittime dell’odio razzista. Vlahovic non è diverso da Lukaku, che a sua volta non è diverso da Moise Kean o da Koulibaly. Allo stesso modo il Gewiss Stadium non è diverso dallo Juventus Stadium, dal Sant’Elia o dallo Stadio Olimpico, così le tifoserie non sono composte da alcune mele marce ma da un sentimento che attraversa parte del calcio e del paese italiano, e che richiede risposte diverse da quelle date da Gasperini.