Estetica delle presentazioni di Mourinho
Quella al Fenerbahçe è stata solo l'ultima di una lunga lista
13 Giugno 2024
“Da oggi questa maglia è la mia seconda pelle, e i vostri sogni sono i miei”. Queste le parole scelte da José Mourinho per battezzare la sua avventura sulla panchina del Fenerbahçe, con cui ha firmato un contratto biennale da 21 milioni di euro (con opzione per la terza stagione). L’allenatore portoghese ha raccolto così l’eredità di İsmail Kartal, reduce da un secondo posto in campionato, e si è presentato lo scorso 2 giugno alla stampa e ai tifosi. Senza mancare l’appuntamento, come prassi, con i titoli dei giornali.
Prevedibilmente il club turco ha infatti organizzato allo Stadio Ülker un evento in grande stile per la sua accoglienza, a cui il pubblico ha aderito - altra consuetudine - con dilagante entusiasmo, in più di 30.000; un contesto in cui Mou è parso nel suo elemento, e che per certi versi ha ricordato la presentazione del 2021 a Roma, sulla Terrazza Caffarelli. Stavolta però i giallorossi sono gli avversari - i rivali del Galatasaray, campioni in carica - e come si è affrettato a sottolineare José: “ho detto molte volte che io sono Mourinho, ma d’ora in poi voglio essere solo l’allenatore del Fenerbahçe”. L’incipit suona familiare per il pubblico italiano, e si incastra perfettamente nello stile comunicativo del portoghese e nel suo modo di presentarsi alle nuove piazze. Tre anni fa diceva in modo simile di “non volere la Roma di Mourinho, ma la Roma dei romanisti”, con l'immancabile appuntamento allo stadio e una nota di colore sull’ambiente: “ho già dovuto cambiare telefono tre volte, non so come lo avete trovato… ma tutto questo è fantastico, quando lavori in Italia e poi sei lontano, ti manca”. Versione aggiornata al 2024: “normalmente un allenatore sente l’affetto dopo le vittorie, qui a Istanbul l’ho percepito subito, dal primo momento”.
Nella sua prima uscita in Turchia ci sono state poi altre tipiche dichiarazioni à la Mourinho, tra messaggi d’amore alla nuova tifoseria, proclami ambiziosi, toni da squadra in missione, qualche riflessione egoriferita e, alla fine, anche un pensiero ai suoi ex club. “Perché sono qui? Ambizione. Per me il Fenerbahçe è ambizione. Io ho casa a Londra, ma è ambizione allenare un club di Londra che punta ad arrivare ottavo o nono? Tutti sanno che amo l’Italia, ma è ambizione allenare lì, fare miracoli per vincere in Europa, e non riuscire mai ad andare oltre il quinto-sesto posto? Sarei anche potuto rimanere in Portogallo, stando a casa e andando a trovare mia madre ogni giorno, ma è ambizione quella? Ambizione per me è giocare per vincere, sentire la pressione di dover conquistare ogni partita per essere campione. E questa è la realtà del Fenerbahçe, diversa da quella della Roma e del Tottenham. Mi mancava non poter perdere punti, dover giocare sempre per vincere”. Parole che si inseriscono in una lunga tradizione di conferenze stampa introduttive - figurarsi a considerarle tutte - in cui Mourinho ha catalizzato l’attenzione mediatica, alla sua maniera: coniando soprannomi e tormentoni, spolverando e rispolverando il proprio palmares (soprattutto nei momenti di bassa), lanciandosi addirittura in modi di dire del posto, riferimenti alla cultura locale o cenni alla storia del club. E perchè no, paragoni con “Sir” Alex Ferguson, Helenio Herrera e Fabio Capello. Insomma, Mourinho così come tutta Europa lo conosce: sempre spavaldo e più che sicuro dei propri mezzi (per non dire arrogante), spesso ruffiano, mai banale.
La prima conferenza stampa da allenatore del Chelsea, nel 2004, ha segnato l’inizio di questa tradizione, nonché uno dei suoi punti più enfatici. Mourinho era arrivato a Londra dopo aver trascinato il Porto sul tetto d’Europa, e si presentava così, con ben poca modestia, alla Premier League: “Non chiamatemi arrogante, ma sono campione d’Europa e penso di essere The Special One”. Ed ecco il soprannome che lo accompagnerà per tutta la carriera, e che Mou stesso declinerà in varianti come “The Only One” (nel 2012, riferendosi ai suoi successi in diversi Paesi europei), o “The Happy One” (al momento del ritorno al Chelsea, nel 2013). Nel suo primo sbarco a Stamford Bridge, poi, regalava ai tabloid locali un’altra frase passata alla storia, parlando dell’addio al Porto: “Se avessi voluto un lavoro facile, sarei rimasto lì: una bella sedia blu, il trofeo della Champions League, Dio, e dopo Dio, io”.
L'arrivo dall'Inter
Quattro anni più tardi, Mourinho si è introdotto al pubblico italiano, da neo-allenatore dell’Inter. Lo ha fatto con una conferenza stampa di cinquanta minuti in cui ha reso Baresi, Paolillo e Branca, seduti al suo fianco, poco più che spettatori; e in cui ha mostrato un sorprendente italiano, nonché di aver fatto - con la solita fantasia - i compiti a casa: “io non sono pirla”, rispondeva per sviare le domande sul mercato, calandosi già nel dialetto milanese. Sulla stessa lunghezza d’onda, nel 2021 attingeva al gergo - “Daje Roma!” - e alla storia della città eterna - “Nulla viene dal nulla, nulla ritorna dal nulla” (citazione dell'effigie sulla statua di Marco Aurelio in piazza del Campidoglio) - per inaugurare la sua seconda avventura in Serie A, come se quella fosse da sempre casa sua. In Inghilterra, invece, aveva sfoderato un improbabile parallelo tra la qualità delle uova per allestire una buona “english breakfast” e la profondità necessaria per un club che punta ai vertici della Premier League.
Era un momento abbastanza opaco, quello del ritorno in Italia tre anni fa, nella parabola del tecnico di Setúbal, dopo le esperienze sulle panchine di Manchester United e Tottenham, tra alti (pochi) e bassi (tanti). “Sono una vittima di quello che ho fatto” - replicava José, col solito tono di sfida - “al Chelsea ho vinto la Premier, allo United ho conquistato tre titoli, con il Tottenham sono arrivato in finale: quello che per me è un disastro, altri non l’hanno mai fatto nella vita”. Un retorica non nuova, anzi familiare proprio dai tempi di Manchester: “Ci sono allenatori che non hanno vinto nulla negli ultimi dieci anni, o addirittura in carriera, mentre io ho vinto un anno fa: se ho molto da dimostrare io, figurarsi gli altri…”. E ancora: “Forse siete stanchi di me perché ho iniziato a vincere ad alto livello che ero ancora molto giovane, ma ho 53 anni, non 63 o 73”.
“Sono José Mourinho e non cambio”, diceva invece nel 2010, all’arrivo a Madrid, in quell’Estadio Santiago Bernabeu dove poche settimane prima aveva celebrato lo storico triplete nerazzurro. “Arrivo qui con i miei pregi e i miei difetti”, spiegava alla stampa spagnola, “e non so se sono nato per sedere sulla panchina del Real Madrid, ma so per certo che sono nato per fare l’allenatore di calcio e per vivere sfide stimolanti come questa”. Il tutto, un’esperienza e un campionato dopo l’altro, con uno stile comunicativo tanto caratteristico e riconoscibile da sdoganare l’uso del termine “Mourinhata” sulle pagine, ad esempio, di Gazzetta dello Sport, Eurosport e Sport Mediaset. Roba da “Special One”, non certo da “pirla”.