Derrick Rose, non chiamatelo “what if”
Il ritiro di un'icona che ha saputo sempre essere se stesso
27 Settembre 2024
Nel pomeriggio di ieri Derrick Rose, a una manciata di giorni dal suo 36esimo compleanno, ha annunciato ufficialmente il ritiro dal basket giocato. Poche ore dopo il video criptico apparso sul suo profilo Instagram, che aveva messo in preallarme i quasi due milioni di follower e l’intero mondo NBA, il nativo di Chicago ha affidato a The Athletic le parole di congedo dalla pallacanestro. “Il mio prossimo capitolo mi porterà a inseguire nuovi sogni”, spiega Rose, “ed a condividere con gli altri i traguardi che ho raggiunto. Credo che il vero successo sia diventare la persona che sei destinata a essere, e io ora voglio dimostrare a tutto il mondo che il mio impatto può estendersi oltre il basket”.
Le adidas signature sneakers
Le proverbiali scarpe appese al chiodo, dunque: un’espressione che nel suo caso, però, ha inevitabilmente un retrogusto diverso dal solito. L’ex giocatore dei Grizzlies - ultima maglia con cui è sceso in campo, anche se verrà ricordato con quella dei suoi Chicago Bulls - ha avuto un impatto generazionale nell’universo delle basketball sneakers, ben documentato dalla lunga lista di signature shoes commercializzate con adidas. Il primo modello a soli 22 anni d’età, quando fu il più giovane di sempre a vincere il premio di Most Valuable Player della stagione regolare; con l’ultima linea, nel 2020, si è invece iscritto al ristretto club di giocatori che ha scollinato la doppia cifra in tal senso (gli fanno compagnia Michael Jordan, Kobe Bryant, Allen Iverson, LeBron James, Carmelo Anthony e Chris Paul, cui si unirà Kevin Durant). Undici in totale, e anche di più considerando i “mid-season models” e altre scarpe appartenenti alla linea D Rose, come le 773 e le Son Of Chi.
Il legame con adidas è iniziato con il suo ingresso in NBA, da prima scelta assoluta nel Draft 2008; ed è entrato nel vivo dopo l’MVP del 2011, cui seguita la storica firma di un contratto da 14 anni e 190 milioni di dollari circa con il brand tedesco. Era il momento in cui Rose, già padrone dei cuori della Bulls Nation, si stava candidando a possibile erede di Jordan, con l’obiettivo di riportare quel titolo che nell’Illinois mancava, e manca tuttora, dagli anni ‘90; aveva raccolto il testimone genetico di Allen Iverson come punto di riferimento delle giovani generazioni, dopo avergli sottratto lo scettro di MVP più precoce di sempre; e insieme ai Bulls di coach Thibodeau, aveva appena lanciato la sfida agli Heat di James e Wade per l’egemonia della Eastern Conference. Tutto questo, però, non si è mai avverato.
Il tragico punto di svolta della sua carriera è stato il 28 aprile 2012, data che allo United Center fa venire ancora oggi i brividi: il giorno di quella Gara 1 contro Philadelphia, durante la quale Rose si è rotto il legamento crociato del ginocchio sinistro. Un infortunio che ha avuto un prima e un dopo nella sua storia e in quella recente dei Bulls, un traumatico spartiacque per l‘esercito di “adepti” che aveva plasmato, un highlight spettacolare dopo l’altro. La point guard esplosiva vista fino a quella sera, che esercitava un'attrazione irresistibile per i tifosi e magnetica per i brand del settore, non sarebbe mai più tornata.
Durante la stagione successiva gli spot pubblicitari realizzati con adidas - indimenticabile “The Return” - hanno alimentato un’attesa che, però, non sarebbe stata saziata prima diciassette mesi (ottobre 2013). E dopo sole dieci partite, il ginocchio - stavolta il destro - fece nuovamente crack: lesione al menisco mediale, operazione chirurgica, capolinea definitivo della sua ascesa all’Olimpo del basket a stelle e strisce: da quel momento in avanti, è sostanzialmente iniziata la seconda parte della sua carriera.
I tanti infortuni
D-Rose ha dovuto adattare il suo gioco a un fisico che non raggiungeva più, neanche lontanamente, i giri del motore pre-infortunio. La sua popolarità tra il pubblico, però, non è mai venuta meno. Così come il commitment di adidas di fronte a un atleta che, nonostante tutto, non ha mai smesso di essere stimato come esempio di perseveranza ed etica del lavoro. In un certo senso tutto il mondo NBA ha sentito come propria la battaglia di Rose contro il destino, quindi ha gioito nel vederlo a fine carriera, una volta superati i trent’anni di età, reinventarsi come affidabile veterano in uscita dalla panchina; arrivando anche a diventare oggetto del desiderio di squadre da titolo e correndo per il premio di Sixth Man of the Year. Nell’ottobre 2018 ha realizzato in maglia Timberwolves - allenato da Thibodeau, come ai vecchi tempi - il proprio career high: cinquanta punti, tondi tondi. Bagnati dalle lacrime che hanno accompagnato il suo toccante discorso nel post-gara. “Mi sono fatto il c**o, ci ho messo il cuore, ho lavorato duro ogni giorno. Per me questo significa tutto.”
Nelle ore successive all’annuncio del suo ritiro, quel discorso ha ripreso a circolare sul web e sui social network. Insieme alle sue giocate al ferro, e anche alle immagini di quella maledetto sera nel 2012. Si è tornati a parlare del suo contratto con adidas, di quello che avrebbe potuto rappresentare per il brand, per Chicago e per l’intera NBA negli anni a venire, infortuni permettendo. E come sempre avviene quando si parla di Derrick Rose, si sta abusando dell’espressione “what if”, con cui oltreoceano si etichetta chi “avrebbe potuto, ma…”
Forse sarebbe più giusto apprezzare quello che è stato, nonostante le avversità che ha dovuto affrontare, piuttosto del giocatore in cui non ha potuto evolversi. Il suo brand e l’icona che ha rappresentato per una generazione sono ampiamente sopravvissuti agli infortuni, e il suo viaggio nel basket potrebbe avere ancora pagine sorprendenti da scrivere. Ce lo chiede Derrick stesso, di deporre le armi contro la sorte e abbracciarla per come l’abbiamo davanti. “Bello o brutto che sia”, si legge su The Athletic, “ognuno nella sua vita ha un momento di cui pensa: cosa sarebbe potuto succedere, se… Ma anche se potessi farlo, io non cambierei niente della mia vita: mi ha reso la persona che sono oggi.”