La nuova estetica dell’NBA, raccontata da Andrea Bargnani
Una chiacchierata con l’ex giocatore NBA e della Nazionale Italiana
25 Novembre 2024
Andrea Bargnani è entrato in NBA nel 2006, come prima scelta assoluta del Draft e da esploratore di un territorio fino ad allora ignoto per un italiano, quantomeno al suo livello. Ci è rimasto per dieci anni, la maggior parte dei quali spesi in Canada, a Toronto, prima del triennio conclusivo a New York, tra Knicks e Nets. Nel frattempo l’NBA è cambiata tantissimo, da svariati punti di vista: nella sua essenza più pura, il gioco, come ci ha raccontato lo stesso Mago d’Italia (soprannome che per anni abbiamo sentito pronunciare in modo pittoresco - in ogni caso, mai quanto il cognome - da commentatori, analisti e speaker dei Raptors); ma anche per la visibilità globale, l'intreccio con altre culture cestistiche, le regole e le dinamiche interne, come sempre in una lega avanguardista per indole; e infine nelle vesti, letteralmente, con cui il mondo NBA si presenta al pubblico, in un tessuto sempre più articolati di collaborazioni e intrecci con l’universo fashion e lifestyle.
In occasione dell’evento Meet & Greet - NBA Legend all’NBA Store di Milano, abbiamo chiesto ad Andrea Bargnani di raccontarci l'evoluzione, vista da dentro, di tali processi evolutivi, e come abbiano ridefinito l’estetica dell’NBA. Da pioniere nel ruolo dei cosiddetti lunghi moderni e dei viaggi transoceanici degli atleti azzurri, Bargnani ci offre un’interessante prospettiva sui cambiamenti che ha sperimentato: la trasformazione della sua vita in campo e fuori, di pari passo con il mutamento del gioco e del paesaggio circostante; da Treviso a Toronto, e quindi al cuore di New York, Manhattan, prima di fare ritorno in Europa nel 2016 per concludere la propria carriera al Baskonia, Spagna. Incontrando Il Mago tra le mura dell'NBA Store, che da sei anni è il punto di riferimento per gli appassionati di NBA e per la vendita del merchandising ufficiale in Italia, non potevamo che partire chiedendogli quali siano le canotte che, guardandosi allo specchio, ha indossato con più gusto.
Conservo tutte quelle con cui ho giocato, e sono tante. Ma la mia preferita, la più cool, è senza dubbio quella dell’Hoop Summit della Nike. Quella è davvero bella, c'è scritto il nome del Paese e il nome dietro, un pezzo da collezionisti.
E in NBA?
Toronto Raptors, senza dubbio. Secondo me è sempre la maglia più bella, e ovviamente intendo quella classica con il vecchio logo: è davvero pazzesca, le batte tutte a prescindere.
Di altre squadre, le prime che ti vengono in mente?
Ce ne sono tantissime, ma direi che le mie preferite sono quella di Denver con l'arcobaleno, e quella dei Pistons di Grant Hill, con il cavallo che sputa fuoco.
Ai piedi invece, con cosa ti piaceva scendere in campo?
Io sono sempre stato e sono ancora un atleta Nike, e ho sempre usato loro scarpe sul parquet. Il rapporto con il brand è iniziato quando ero ancora a Treviso e avevo 17 anni. Se mi chiedi i modelli esatti, però, non te li saprei dire.
Se fossi arrivato in NBA in altri anni, chissà, magari avresti avuto una tua signature shoe. Scoot Henderson e Wembanyama, ad esempio, sono entrati in NBA nel 2023 e hanno già la propria scarpa in cantiere. A te sarebbe piaciuto?
Beh, una linea di scarpe personalizzata. Penso sia il sogno di ogni giocatore di basket, no? Mi sarebbe piaciuto molto, sì.
Gli atleti ora hanno un’altra dimensione e visibilità fuori dal campo.
Sì, il personal branding e l’esposizione dei giocatori sono cresciuti molto nel tempo. Io ho visto chiaramente questo cambiamento durante i miei anni in NBA.
Anche i legami di oggi con il mondo fashion e lifestyle sembrano appartenere a un’era successiva alla tua.
Sì, sicuramente ai miei tempi era tutto molto diverso. L’attenzione alla moda non era quella di oggi. Per dire, ho visto che adesso l'NBA organizza dei corsi estivi alla Bocconi con la NBPA, l'associazione dei giocatori, creando occasioni e incontri con executive, amministratori delegati di brand di moda e rappresentanti di aziende del settore. Ed è tutto improntato al 90% sul lifestyle, sui trend del momento, sulla moda. Quando io ero arrivato in NBA non c'era tutto questo focus, assolutamente, a parte alcuni singoli casi di spontaneo interesse come Dwyane Wade.
Chi è il più fissato con la moda tra quelli con cui hai giocato?
Senz’altro Iman Shumpert, con cui ho giocato a New York. Era molto stylish, cambiava proprio ogni sera, c'era un outfit studiato per ogni partita… l'unico che mi viene in mente con cui ho giocato è lui. Oggi invece sono tanti.
Com’è stato il tuo trascorso personale a Toronto e New York?
Due città bellissime, sono stato fortunato: due metropoli internazionali, in cui stavo bene. Non ho neanche dovuto cambiare casa a New York (nel passaggio dai Knicks ai Nets, ndr), sono rimasto sempre a Manhattan. Penso che dal punto di vista dell'esperienza personale ho avuto un gran culo, si può dire?
Si può.
Di sicuro poteva andarmi molto peggio. Prima di New York sono stato tanti anni a Toronto, e anche lì mi sono trovato molto bene. Fin da subito, anche perché c'è una comunità italiana enorme a Toronto.
Ti ha aiuto ad ambientarti?
Quando sono arrivato io era la più grande comunità italiana all’estero in tutto il mondo: mezzo milione di persone, forse anche di più. E quindi non c'è stato nessun trauma, nessuna difficoltà ad ambientarmi, avevo tutto quello cui ero abituato nel quotidiano: spese, cibo, ristoranti, diciamo che non l'ho neanche sentita. In generale la mia vita fuori dal campo a Toronto è sempre stata super easy.
L’NBA era pronta ad accoglierti, quindici-venti anni fa? In tanti dicono che sei arrivato troppo presto, per le tue caratteristiche da stretch five (archetipo del lungo moderno che ha allargato il tradizionale raggio d’azione al di fuori del pitturato, ndr). Cosa ne pensi?
Beh, troppo presto, se fossi arrivato quando c'era Wilt Chamberlain, sarebbe stato presto! Scherzi a parte, partendo proprio dagli anni di Chamberlain e andando avanti, il basket è un gioco che non ha mai smesso di cambiare: prima non c'era neanche la linea del tiro da tre punti, ora invece il gioco si è spostato molto dietro il perimetro, forse anche troppo. Come è normale e giusto che sia, è un'evoluzione continua che fa il suo corso e segue il cambiamento.
Come immagini la tua carriera, spostandone avanti l’inizio di dieci o quindici anni?
Difficile rispondere, ma so che sarebbe stata diversa, senz’altro. Adesso ci sono tanti giocatori con caratteristiche simili alle mie, in ogni squadra praticamente c’è un lungo che sa anche giocare da fuori e trattare la palla. Quando giocavo io, ce n’erano forse tre in tutta l’NBA. Eri un giocatore più raro, quindi. E magari alcune giocate le facevi con più facilità, perché eri unico, mentre oggi avresti di fronte difese più preparate. Ci sono i pro e i contro, secondo la prospettiva da cui ci pensi.