PUMA ha interrotto il suo rapporto con la Nazionale israeliana
Una decisione che racconta il ruolo dello sport tra marketing e politica
03 Dicembre 2024
Il 2024 sta volgendo al termine, e con esso l’accordo tra PUMA e la Federazione calcistica israeliana (IFA), per cui il brand tedesco è stato sponsor tecnico e ha prodotto i kit ufficiali da gara della Nazionale dal 2018 in avanti. La decisione di non rinnovare il deal era stata anticipata dodici mesi fa da PUMA, con modalità e soprattutto tempistiche abbastanza sospette nel contesto di riferimento (ci torniamo più avanti). Se sei anni fa il passaggio di consegne era avvenuto in casa, con la transizione da un marchio tedesco (adidas) all’altro, a partire dal prossimo gennaio il testimone finirà - con un ridimensionamento economico intorno al 40% - nelle mani di Erreà.
L’azienda bavarese ha motivato la scelta nel contesto di una più ampia revisione della propria strategia di marketing, volta a un minor numero di partnership. Tuttavia molti osservatori, tra cui i membri del movimento BDS (Boycott, Divestment, Sanctions), hanno descritto la fine del rapporto tra PUMA e IFA come una vittoria delle pressioni e delle campagne di boicottaggio nei confronti del marchio, accusato di sostenere indirettamente l’occupazione israeliana sui territori palestinesi attraverso attività economiche negli insediamenti illegali.
La scelta di PUMA
@mondoweiss Puma has announced it is ending its sponsorship of the Israel Football Association (IFA), after a years-long boycott campaign. Puma denies the boycott impacted its decision, but activists say otherwise. #BDS #Puma original sound - Mondoweiss | Palestine News
La decisione di PUMA di interrompere il rapporto con la IFA era stata comunicata nel 2023, a più di un anno dalla fine dell’accordo: una tempistica di certo poco conforme alla prassi. È raro infatti che i brand annuncino pubblicamente il termine di una sponsorship del genere, figurarsi con dodici mesi di anticipo. La sensazione, evidenziata anche da BDS attraverso un comunicato degli ultimi giorni, è che il marchio tedesco abbia sentito la necessità di sganciarsi da Israele, per motivi che non è difficile immaginare nell’attuale contesto politico.
Da anni BDS accusa PUMA di trarre profitto, anche se indirettamente, dalla complicità con insediamenti israeliani nei territori palestinesi considerati illegali dal diritto internazionale (Cisgiordania e Gerusalemme Est). Una retorica, questa, che si è intensificata da ottobre 2023 in avanti, con l’inizio dell’occupazione militare della Striscia di Gaza, che in nome dello smantellamento di Hamas ha generato oltre 40.000 vittime in tredici mesi e ha costretto due milioni di palestinesi a lasciare la propria abitazione. Lo scorso gennaio la Corte Internazionale di Giustizia ha definito le operazioni dell’esercito israeliano come possibili “atti genocidari”; di recente invece, dopo l’estensione del conflitto al Libano, la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, rispettivamente Premier e ministro della difesa di Tel Aviv.
Come ci hanno ricordato ad esempio il deserto sugli spalti parigini in occasione della partita tra Francia e Israele, le manifestazioni che hanno preceduto la partita di Udine contro la Nazionale italiana e le dimostrazioni di tanti gruppi del tifo organizzato, il conflitto in Medio Oriente è entrato sul palcoscenico sportivo. Anche attraverso iniziative (boicottaggi di store, marchi, eventi) e appelli (raccolte firme, petizioni) per mettere alle strette brand come PUMA, evidenziando i rischi reputazionali e dunque commerciali di una neutralità sempre più difficile da motivare di fronte alle pressioni dell’opinione pubblica. PUMA non è l’unica multinazionale ad aver fronteggiato sollecitazioni simili; anche adidas aveva interrotto la collaborazione con la Federcalcio israeliana per lo stesso motivo nel 2018, così come altri marchi internazionali (Ben & Jerry’s, Orange, Sodastream) che hanno dovuto ridimensionare o cessare del tutto i rispettivi rapporti con il mercato israeliano.
Lo sport come megafono
Sempre di più nel corso del XX secolo lo sport si è rivelato un potente megafono, capace di amplificare messaggi di vario tipo ben oltre i confini di stadi, arene, campi di gioco e ambienti (reali e virtuali) connessi. Non è solo una questione di atleti che diventano “more than athletes”, come amano dire negli Stati Uniti, ma di uno spazio globale dove cause civili, politiche ed economiche trovano eccezionale risonanza. Il calcio in particolare, grazie alla sua popolarità trasversale nel tessuto sociale (in ogni continente), è una piattaforma che offre opportunità uniche di contatto con il pubblico, e non soltanto per le dimensioni del suo raggio d’azione; si tratta infatti di un ecosistema alimentato dalla passione di tifosi e spettatori, che dunque offre la chance di intercettare i destinatari di un qualsiasi messaggio - che si tratti di advertising, campagne di sensibilizzazione, sponsorship o il cosiddetto “sportwashing” - su un terreno fertile.
A sfruttare tale forza mediatica e divulgativa non sono soltanto gli attori protagonisti del business, i calciatori, ma anche figure ed entità politiche, nonché aziende e organizzazioni attive in ambito sociale. In modi differenti, secondo le finalità: la penetrazione da parte del settore privato segue i binari - più o meno lineari - delle sponsorizzazioni, di cui la compagnia aerea Emirates ci sta offrendo nell’ultimo decennio un esempio senza precedenti; le iniziative di sensibilizzazione che coinvolgono atleti, club o federazioni - come ad esempio quelle (di scarsa spontaneità e utilità) per la Giornata contro la violenza sulle donne - si inseriscono invece nel più semplice schema dello sfruttamento della cassa di risonanza; quando si tratta di politica, invece, il discorso è più articolato.
Gli Stati possono utilizzare i grandi eventi sportivi per pulire la propria immagine e sganciarla da aspetti controversi quali, ad esempio, le violazioni di diritti umani. Quindi, per alterare la percezione internazionale dei rispettivi governi, distogliendo l’attenzione da tematiche che ne condizionano negativamente la reputazione. È quanto abbiamo visto con vetrine geopolitiche come la FIFA World Cup in Qatar (2022), o le recenti edizioni delle Olimpiadi in Cina (2008) e Russia (2014); oppure, andando più indietro nel tempo, i Mondiali di calcio ospitati dell'Argentina di Videla (1978), quelli del ventennio in Italia (1934) o i Giochi nella Berlino del Terzo Reich (1936).
Se quanto detto finora riguarda le logiche di chi sceglie di associare la propria immagine a competizioni, squadre, atleti e strutture, per trarne beneficio, all’estremo opposto dello spettro, invece, c’è chi decide di spezzare tali legami. L’intento generalmente è trasmettere un messaggio in contrasto con i valori dell’evento, della realtà di riferimento o del Paese ospitante, manifestando dissenso riguardo a tematiche che li riguardano o anche solo per compiacere il proprio pubblico da un punto di vista etico-ideologico. Ciò che si intende, insomma, con l’espressione “boicottaggio”.
La storia dei boicottaggi nello sport
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Il più delle volte i boicottaggi affondano le radici in crisi politiche o attriti tra Nazioni, e si configurano in tutto e per tutto come un esercizio di soft power da parte dei governi, generalmente in eventi di grande portata come i Giochi Olimpici. Nell'edizione del 1956, ad esempio, a Melbourne mancavano diverse rappresentative: Cina (per via della presenza autonoma di Taiwan), Spagna, Paesi Bassi, Svizzera (per l’invasione sovietica dell’Ungheria), Egitto, Iraq e Libano (per la crisi di Suez). Gli anni della Guerra Fredda sono ancora più emblematici in tal senso, come ricorda l’assenza di Team USA, Germania Ovest, Israele e un’altra sessantina di Stati ai Giochi Olimpici di Mosca nel 1980 (per l’invasione dell’Afghanistan); e in modo analogo, il ritiro delle selezioni di URSS, Germania Est e altri Paesi del blocco sovietico dalla successiva edizione a Los Angeles quattro anni più tardi. Jimmy Carter, allora presidente USA, diceva che «lo sport non può chiudere un occhio sull’invasione di una Nazione sovrana: il boicottaggio è un messaggio di pace».
Parallelamente, anche i brand e gli sponsor intervengono su questo terreno, utilizzando la rottura - o semplicemente il non rinnovo - di accordi commerciali, o altre svariate prese di posizione, come strumento di definizione valoriale del brand. Un esempio ci è stato fornito nel 2022 con lo scoppio del conflitto in Ucraina, quando diverse squadre europee di calcio, tra cui Manchester United e Schalke04, hanno scaricato i propri sponsor russi; una dinamica, questa, che ha toccato svariate discipline e ha portato a una massiccia estromissione di Mosca dal mondo sportivo occidentale. Il più delle volte i boicottaggi messi in atto da attori privati si configurano come occasioni di visibilità e soprattutto di allineamento a posizioni etiche o politiche ritenute strategiche.
È una dinamica in cui tra adesione spontanea, reputazione aziendale e calcolo di mercato sussiste un equilibrio sottile, e in cui le pressioni esterne - dei consumatori, ma anche di associazioni e movimenti globali (come DBS, protagonista nel caso da cui siamo partiti) - possono esercitare un ruolo decisivo, trasformando la neutralità commerciale in un terreno di scontro culturale. Il caso PUMA-Israele ci ricorda ancora una volta come lo sport possa diventare un campo di battaglia simbolico, dove brand, istituzioni e movimenti si contendono il controllo della narrativa. In tutto ciò, gli sponsor devono bilanciare obiettivi di marketing e strategie commerciali con un impegno etico che il pubblico oggi pretende sempre più esplicitamente. Ogni contratto, insomma, sottintende una presa di posizione.