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L’NBA non può salvare l’All-Star Game
L’ennesimo restyling dell’evento non ha migliorato le cose
18 Febbraio 2025
L’All-Star Game un tempo era un evento centrale, e non solo per il timing, nel calendario della stagione regolare NBA. Era una serata attesa e apprezzata dal pubblico, in cui le stelle più luminose della lega si sfidavano con leggerezza, sì, ma in cui si giocava a basket. E si faceva sul serio, non fosse altro che per l’audience globale della partita, non scontata fino agli anni duemila. Oggi, invece, l’All-Star Game rappresenta una delle proposte più deboli dell’intero calendario NBA. È un evento in decennale (e forse irreversibile) crisi di ascolti, storie da raccontare e interesse. Per un limite a cui si è dedicata fin troppa attenzione, destinato a restare senza una soluzione: l'impossibilità di offrire qualcosa di interessante senza un vago fondamento competitivo.
L’NBA sta cercando ormai da anni, giustamente si può dire, soluzioni per rattoppare un prodotto sempre meno appetibile per tifosi, broadcaster e sponsor. Non senza coraggio e creatività. Adam Silver e soci nel 2025 - al Chase Center di San Francisco, casa dei Golden State Warriors - hanno rivoluzionato un’altra volta l’impianto della serata, introducendo un torneo in cui quattro squadre si sono affrontate in partite senza cronometro, con target score fissato a 40 punti. L’idea era garantire un po’ più di intensità e pathos, ma il risultato è stato lo stesso delle ultime esperienze.
Com'è andato l'All-Star Weekend
L’All-Star Weekend, ovviamente, non è soltanto la partita della domenica. A parte il Rising Stars Challenge del venerdì, che non ha mai riscosso particolare interesse (e da tempo è in caduta libera), c’è il sabato, con l’unica parte dello show - gare di triple e schiacciate - che sembra conservare un’identità, pur avendo perso la capacità di sorprenderci. Al Chase Center c’è stata un’inversione di tendenza, però. Il Three Point Contest è stato abbastanza dimenticabile, con la vittoria a sorpresa di Tyler Herro dei Miami Heat, mentre lo Slam Dunk Contest ha regalato emozioni, grazie al solito Mac McClung alla terza vittoria consecutiva saltando anche sopra una macchina parcheggiata sotto il canestro. Una conferma che l’interesse per le gare individuali esiste ancora, se il contenuto è all’altezza delle aspettative e si crea una vera narrativa a riguardo.
Ma torniamo alla partita della domenica tra i migliori giocatori di basket del mondo, che in teoria dovrebbe essere il piatto forte del fine settimana. Se nelle passate edizioni si lamentava la totale assenza di difesa e l’approccio svogliato dei giocatori, e nelle ultime in particolare il formato cervellotico del punteggio con l'Elam Ending, l’esperimento di quest’anno ha reso l’evento ancora più frammentato e dispersivo, al netto di un miglioramento appena percettibile nell’effort dei suoi protagonisti. È cambiato poco o niente, insomma, agli occhi di un pubblico che ormai può guardare questi giocatori tre volte alla settimana, in un contesto - anche nella meno intensa delle gare di regular season - più agonistico dell’All-Star Game.
Il nuovo formato dell'All Star Game
La revisione del formato sperimentata (e forse un po’ troppo sperimentale) dall’NBA ha raccolto feedback contrastanti, ma per lo più negativi. I giocatori hanno apprezzato l’idea di un minutaggio ridotto, ma hanno digerito a fatica il numero e la durata delle pause. Figurarsi gli spettatori. In effetti il ritmo della serata, in cui ci sono state molte più interruzioni che pallacanestro giocata, è stato davvero spezzettato. In tre ore di trasmissione, il tempo “effettivo” è di 27 minuti: niente. Il resto sono stati spot pubblicitari, continui interventi di Kevin Hart e di volti dell’intrattenimento come Mr. Beast più che dello sport; e nel momento apicale della serata, un infinito tributo alle tre storiche voci di TNT Charles Barkley, Kenny Smith e Shaquille O’Neal.
Le semifinali hanno regalato qualche spunto interessante, più che altro nella sfida tra “Chuck’s Global Stars” e “Kenny’s Young Stars”, in cui si sono viste difese più attive e percentuali al tiro più basse rispetto agli standard recenti degli All-Star Game. La finale vinta dagli “Shaq’s OGs”, però, è stata un ritorno alle abitudini meno apprezzate: zero difesa, un tiro dopo l’altro da ogni punto del campo, nel disinteresse generale per il punteggio. Un film già visto, di cui nessuno chiede il bis.
Negli ultimi anni l’All-Star Game ha fatto registrare un calo drastico di ascolti, fino ai 5.3 milioni di spettatori nel 2024 (Stati Uniti), il secondo peggior dato di sempre. Il 2025 non sembra aver invertito il trend, anche se non sono ancora disponibili dati ufficiali. Sappiamo però che la NHL ha rubato una fetta di pubblico con il suo nuovo evento “4 Nations Face-Off”, che ha avuto una media di 4.4 milioni di spettatori per tutta la serata, e un picco di 5.2 milioni.
Gli ascolti scendono, le stelle hanno sempre meno interesse a giocare (LeBron James ha saltato l’evento con un preavviso minimo), e la NBA non sa più dove sbattere la testa per trovare un format che funzioni. Alcuni giocatori, tra cui Giannis Antetokounmpo, hanno proposto il ritorno a una partita tra USA e resto del mondo; altri si sono detti intrigati dall’idea di un torneo uno-contro-uno. La verità però è che in un’epoca in cui gli All-Star guadagnano centinaia di milioni di dollari, non esiste incentivo sportivo o economico che li possa spingere a giocare seriamente - rischiando di infortunarsi - una partita senza valore.
A questo punto, la domanda è lecita: può ancora essere salvato un evento che, anno dopo anno, continua a dimostrare di non interessare più a nessuno? Forse, è semplicemente l’ora di rassegnarsi al tramonto del fascino dell’All-Star Game. Il pubblico non chiede un altro format, vuole - senza neanche troppo trasporto - che i giocatori prendano la gara sul serio. E questa è una richiesta che nessuna formula riuscirà mai a soddisfare, senza la disponibilità di chi scende in campo.