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L'ipocrisia dell'accordo tra Reebok e la Federazione calcistica d'Israele
Un modo pessimo per farsi nuovamente strada nel calcio da parte dell'azienda statunitense
25 Febbraio 2025
Quando PUMA il 31 dicembre 2024 aveva scelto di unirsi al boicottaggio nei confronti di Israele interrompendo la partnership con l'IFA - Federazione calcistica d'Israele - la Nazionale aveva trovato in Erreà un partner temporaneo per la fornitura dei kit. Tuttavia, quel contratto è partito il primo gennaio 2025, ed è poi stato interrotto da Erreà solo a metà febbraio, a causa di un ripensamento, che ha visto anche l'azienda italiana unirsi al boicottaggio quasi generale nei confronti di un Paese che solo il 15 gennaio aveva raggiunto un accordo con Hamas per il cessate il fuoco a Gaza e per il rilascio di ostaggi, ponendo fine a una guerra di quindici mesi che ha causato decine di migliaia di vittime nel territorio palestinese. Dopo giorni di ricerca e di confusione, oggi la IFA sembrerebbe aver trovato un partner (se stabile, questo non possiamo prevederlo) per la fornitura dei kit: si tratta di Reebok, brand di cui avevamo parlato tempo fa in merito a un eventuale ritorno in ampia presenza nel calcio, grazie alla nuova partnership con il Botafogo. Bene, tutto ciò che non ci saremo aspettati è di vedere Reebok accanto al nome della Federazione calcistica d'Israele: una mossa che non solo delude, ma che tra l'altro ribalta lo stato reputazionale dell'azienda, che più volte, nella sua storia, aveva dimostrato resistenza di fronte a dilemmi di stampo etico o morale.
Ed ecco perché vince l'ipocrisia dell'accordo tra la Federazione calcistica d'Israele e Reebok, lo stesso brand che nel 2013 aveva interrotto la collaborazione con il rapper Rick Ross, reo di aver fatto un featuring con A$AP Rocky, Future, 2 Chainz e Wiz Khalifa nella traccia U.O.E.N.O. del rapper Rocko, incriminata per contenere una barra - che passerà alla cronaca come rape line (letteralmente barra dello stupro) - in cui Rick Ross canta: «Put Molly all up in her champagne, she ain't even know it, I took her home and I enjoyed that, she ain't even know it», riferendosi a un modus operandi molto diffuso quando si compie questo tipo di crimine. Insomma, paragonare le due cose potrebbe risultare insensato e squilibrato, ma questa accortezza dava l'idea che il brand fosse molto rigido e attento alla propria reputazione a livello globale, e non è tutto qui. Nel 2016, a una settimana dalla commemorazione della Nakba da parte dei palestinesi - una giornata che ricorda la distruzione di oltre 500 villaggi durante la guerra del 1948 e la fuga e espulsione di almeno 700.000 persone - i cittadini israeliani si prepararono a celebrare il Giorno dell'Indipendenza di Israele. Festa Nazionale che sarebbe stata celebrata in ogni modo: oltre a gite fuori porta, tradizionali picnic e giornate passate con i propri cari, anche con il lancio di una sneaker.
Reebok’s cancellation of Israel sneaker welcomed by BDS boycott Israel movement https://t.co/C457TK1WnW pic.twitter.com/Ntb0nSoONG
— #Africa4Palestine (@Africa4Pal) May 11, 2016
Una sneaker commemorativa che doveva essere lanciata sul mercato proprio da Reebok, in tiratura limitata di 68 paia (68 come il 68° giorno dell'Indipendenza del Paese), per poi essere messa all'asta, come riportato anche dal Jerusalem Post. A confermare il lancio arrivarono anche le parole di Moshe Sinai, CEO di Reebok Israele, che dichiarò al giornale che «queste scarpe sarebbero state una release celebrativa unica, un oggetto da collezione in Israele e nel mondo». Dato l'inadeguato tempismo del lancio, che sarebbe praticamente coinciso con il ricordo della Nakba, Reebok Global decise di cancellare il lancio, scusandosi in modo piuttosto grottesco, dichiarando che la scarpa era frutto dell'idea di un collezionista di Reebok. «Reebok si è distanziata da questa iniziativa terribilmente offensiva dopo aver riconosciuto il prezzo reputazionale e finanziario che una campagna BDS contro di essa avrebbe comportato», dichiarò invece Abdulrahman Abunahel, Coordinatore di Gaza del Comitato Nazionale Palestinese.
È trascorso del tempo dai due casi menzionati; nel 2021, infatti, il brand è passato dalla proprietà di adidas a quella di Authentic Brands Group, e sicuramente anche questa operazione ha portato Reebok a legarsi alla Federazione calcistica d'Israele, cosa che probabilmente non sarebbe successa sotto il controllo di adidas. Inoltre, il ranking attuale di Reebok nel mondo dello sportswear (non più fiorente come una volta, soprattutto nel calcio, dove vanta unicamente una sponsorship con i brasiliani del Botafogo) avrà influito sulla decisione finale di chiudere questo tipo di accordo. È molto probabile che l'azienda americana, in una situazione diversa, non avrebbe accettato di sponsorizzare Israele, unendosi al boicottaggio generale dei maggiori player dell'industria sportswear nei confronti di un Paese guerrafondaio.
Ma chi sta cercando di opporsi a questa scelta da parte del brand? Reebok al momento non può contare sulle voci di club o società sportive autorevoli pronte a rifiutare categoricamente questa operazione, quindi sarebbe più probabile e giusto che fossero gli atleti ad opporsi. Reebok conta nel suo roster su Connor McGregor e le cestiste statunitensi Angel Reese e Lexie Brown tra i migliori. Sarebbe giusto, ma meno probabile, aspettarsi anche un retrofront dai due vertici del brand, ovvero Shaquille O'Neal e Allen Iverson (il primo gestisce la strategia e le partnership del brand, mentre il secondo si occupa delle attività con la community e gli atleti), ma l'impressione che la scelta del brand possa passare inosservata a causa della sua statura comparata alle big companies dell'industria, è lo scenario che fa più paura.