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Per i brand sportivi la nostalgia è una trappola

Cosa resterà dopo l'ennesima retro release?

Per i brand sportivi la nostalgia è una trappola  Cosa resterà dopo l'ennesima retro release?

Nostalgia Balorda cantava Olly poco più di un mese fa sul palco dell'Ariston vincendo l'ultima edizione di Sanremo, interpretando il trend più onnipresente degli ultimi mesi e forse anni nel calcio. Dopo che la moda aveva già saccheggiato gli archivi, è arrivato anche lo sportswear a rinchiudersi dentro la claustrofobia del passato con i maggiori brand che duellano su chi ha la retro release più identica all'originale. Così tornano in campo le adidas Predator di metà anni '90, poi le Nike Total90 del 2004, ora il Teamgeist del 2006, e ancora le PUMA King o le Umbro Tocco. Tutti i brand hanno scelto la strada più facile, quella che porta negli scantinati delle aziende, invece che immaginarne una che guarda in avanti. E se anche Nike, il brand che più di tutti ha saputo modellare il futuro e creare nuovi universi da esplorare insieme ai suoi atleti di punta, ha deciso di tornare sui propri passi forse per evitare di commettere quelli falsi degli ultimi anni, la saturazione nostalgica ha raggiunto un punto di non ritorno. 

Il calcio da sempre rappresenta in Europa e non solo i valori dell'identità, di tradizione e della storia, sul quale si costruisce gran parte del suo fascino. Non è un caso che la moda abbia scelto di appoggiarsi così avidamente all'estetica calcistica proprio per recuperare un briciolo di heritage e credibilità, meno prevedibile era che il calcio a quel punto si ripiegasse così tanto su se stesso. Invece la stanchezza della moda e del lifestyle ha finito per contagiare anche tutto il settore performance, o meglio ha portato quest'ultimo a separarsi sempre più dagli interessi di un consumatore tipo. Il terrore del futuro ha bloccato la voglia di novità, intrappolata in passato idealizzato da chi spesso non lo ha neanche vissuto. Così quella tensione che ha reso l'abbigliamento sportivo una continua corsa verso l'immaginazione è rapidamente svanita nella polvere degli archivi storici. 

Ma non è solamente una questione di Zeitgeist. È ormai evidente come la nostalgia sia diventata l'unico vero motore delle vendite sia nella moda quanto nello sportswear, rispondendo ad un consumatore che non vuole più vivere nel presente. Che sia tornare all'adolescenza specchiandosi in un paio di Total90 lucenti, quelle magari sempre invidiate al compagno di banco, o fuggire in un'altra epoca triftando in qualche atelier o sui marketplace, niente regala quel brivido di speranza e distensione quanto comprare un pezzo di storia. È più facile comprare qualcosa che è già diventato un classico, che è stato già accettato come rilevante e rappresentativo. Si salta tutta la fase di creazione di un trend, di un'identità, di una appartenenza prendendone in prestito una già utilizzata e storicizzata. Se la moda d'altronde preferisce i musei alle gallerie d'arte è proprio perché non ha più il coraggio di immaginare un nuovo ordine di idee, una nuova ondata creativa. 

Questa rassegnazione è diventata parte delle strategie anche dei brand sportivi, che in un periodo di difficoltà hanno scelto la strada più semplice ma che potrebbe diventare anche la più breve. Infatti se rilanciare un paio di scarpini iconici sfruttando al meglio l'aura ancora visibile delle legends di epoche passate funziona sul momento, con un coefficiente di entusiasmo che varia a seconda del modello e del calciatore, è un meccanismo che svuota il potenziale di un brand. Dopo che finirà anche l'ennesima curva gaussiana della retro release, cosa resterà poi ancora da rilanciare, da svuotare nella ricerca della prossima hit?

E questo problema non è limitato solo agli scarpini, che nell'ultimo anno sono tornati ad essere l'item di punta per ogni brand, ma anche alle svariate maglie celebrative per gli anniversari dei club, diventati la scusa per lanciare una nuova collezione lifestyle molto classica, per attirare la fetta più tradizionalista del tifo. Dare alle persone cosa vogliono è forse la strategia di marketing più semplice e lineare che esista, un sottile elastico tra domanda e risposta. Ma questo elastico si può rompere molto facilmente quando il rapporto diventa così univoco, senza che i brand dettino i gusti e le aspettative dei consumatori ma si limitano ad assecondarle passivamente. 

I brand sportswear hanno creato la loro leggenda riuscendo ad immaginare un futuro differente attraverso i loro prodotti e gli atleti che li indossavano. A creare un avida necessità di partecipare a quel futuro, di volerne farne parte a tutti i costi imitando i campioni e le loro abilità acquistandone le signature shoes, o le maglie da gioco. Ma anche investendo costantemente in ricerca, innovazione e design, dando forma ai desideri di chi ancora non sapeva cosa sognare, creando così proprio quelle icone che oggi vengono riproposte in ogni variante per tenere in vita i ricavi semestrali dei brand. Lo sport senza immaginazione e ambizione è solo fitness, lo sportswear senza coraggio è solo merchandising. Serve tornare a quello spirito creativo e pioneristico, che non dipenda solamente dai risultati immediati o dagli algoritmi dei social, ma che riesca ad immaginare un'alternativa, prima che tutta questa nostalgia ci tolga definitivamente la voglia di rischiare e crescere.