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Cosa ne sarà dei Dallas Mavericks

A due mesi dalla trade shock di Luka Doncic, davvero la franchigia verrà spostata a Las Vegas?

Cosa ne sarà dei Dallas Mavericks A due mesi dalla trade shock di Luka Doncic, davvero la franchigia verrà spostata a Las Vegas?

Campioni della Western Conference in carica, uno dei migliori giocatori al mondo (di 25 anni) sotto contratto, top-10 tra le franchigie NBA per valore e per partecipazione della fanbase, sia dentro che fuori l’American Airlines Arena. Fino a due mesi fa, la stragrande maggioranza della NBA guardava con invidia alla posizione dei Dallas Mavericks. L’1 febbraio, poi, sono cambiate tante cose, all’interno dell’organizzazione e ancora di più nella sua percezione pubblica. A rendere drammatici questi 50 giorni non è stato soltanto l’addio di Luka Doncic, direzione Los Angeles Lakers, in una delle trade più sorprendenti e discutibili di sempre. Ne è stato l’apice ovviamente, e se volete anche la colpa originaria, ma poi ci si è messa una serie impensabile di infortuni: i soliti di Anthony Davis, quello grave di Kyrie Irving, l’injury report sempre affollato, il reparto lunghi decimato.

Sul campo, il crollo è stato inevitabile: quattro vittoria nelle ultime dieci partite, il play-in che si allontana e il sospetto che competere sarà difficile anche nel 2026, con Irving al rientro da un lungo stop. Non gli orizzonti ideali, anzi, per un roster in cui i tre contratti più onerosi sono intestati a una coppia di 32enni (Irving e Davis) e un “terzo violino” 35enne (Klay Thompson). E abbastanza, fuori dal campo, per portare l’attenzione mediatica e la frustrazione dei tifosi a temperatura di ebollizione.

Una trade difficile da spiegare

Come può accadere in casi controversi del genere, nelle settimane successive alla trade deadline sono circolate sui media, sul web e sui social le tesi più disparate. Non solo i retroscena della trattativa (una letteratura destinata a lunga vita), ma anche una buona dose di ipotesi, speculazioni e teorie del complotto sulla proprietà della franchigia. Ovvero, sulle intenzioni di Patrick Dumont e Miriam Adelson, gli owner, e quindi sul coinvolgimento di Las Vegas Sands, colosso globale del gioco d’azzardo ereditato proprio dalla vedova di Sheldon Adelson, e di cui Dumont è COO e dall’anno prossimo CEO. Il tutto, passando per un improbabile trasloco dei Mavs, su cui si è resa necessaria una presa di posizione “ufficiale” della proprietà.

C’è pure chi ha ipotizzato un movente geopolitico dietro alla partenza di Doncic, legandolo alla posizione della famiglia Adelson, nota sostenitrice di cause pro-Israele, e alla provenienza del giocatore, in un momento storico in cui la Slovenia è più che mai distante da Tel Aviv. Queste speculazioni sono nate su X e sono state rilanciate da svariati account americani, prima di essere riprese in un pezzo di The Ringer che le ha menzionate - con buoni argomenti (cui se ne potrebbe aggiungere uno: la presenza in squadra di Kyrie Irving, prima voce nella lega per la causa palestinese) - in una lista delle “teorie più folli del mese”.

Il momento della squadra e il brusio di fondo sono una buona occasione per fare chiarezza sullo status dei Dallas Mavericks nell’universo NBA, che potrebbe apparire un po’ distorto dopo le ultime settimane. E per fare ordine anche tra i pensieri sulla possibile, anzi probabile espansione (imminente) della lega, di cui inevitabilmente si finisce a parlare ad ogni movimento “sismico” al suo interno. Ed è un tema, questo, che ha a che fare con Las Vegas, eccome - ma non con i Dallas Mavericks.

Teorie del complotto 

Patrick Dumont in un’intervista dell’8 marzo al Dallas Morning News ha detto che “i Mavericks non si trasferiranno a Las Vegas, non c’è alcun dubbio su questo: i Mavericks sono i Mavericks, e rimarranno a Dallas”. E la notizia non sono tanto le sue parole, simili a quelle del general manager Nico Harrison (“le famiglie Adelson e Dumont si sono impegnate a investire e costruire nell’area di Dallas/Fort Worth, non hanno assolutamente alcun piano di portare via la squadra dal North Texas”); il punto, piuttosto, è che i loro stessi interventi si siano resi necessari, dopo giorni in cui effettivamente era stata data voce a ipotesi di ogni tipo. “Alcuni addetti ai lavori ritengono che la cessione di Doncic sia stata il primo passo per rendere i Mavericks meno redditizi”, si legge in una ricostruzione pubblicata su The Cord, “e quindi per aprire potenzialmente la strada a una relocation. Dopo la trade, infatti, sono calati i biglietti venduti, i ricavi del merchandising e il coinvolgimento dei tifosi”. E da questa premessa (poco realistica) è nato il collegamento con Las Vegas, dove la famiglia Adelson è ben radicata, e “dove Adam Silver da tempo lascia intendere la volontà di espandersi, come dimostrano gli esperimenti con la Summer League e l’NBA Cup”.

Il Las Vegas Review-Journal ha dedicato più articoli a questo tema nelle ultime settimane. Il 15 marzo, in un pezzo intitolato “No, the Mavericks aren’t moving to Vegas”, si sottolinea però che “pur essendo la nuova proprietà legata a Las Vegas Sands, non c’è nulla nei fatti che suggerisca un trasferimento. È molto più probabile che Las Vegas ottenga una franchigia via espansione, che attraverso la relocation di una squadra stabile e ben gestita come i Mavs”. Una precisazione sensata, per due motivi. In primis, la solidità dei Mavericks, che sono al nono posto nella classifica di Forbes delle franchigie NBA per valore commerciale con 4.7 miliardi di dollari, con una fanbase consolidata, una città di riferimento in piena espansione economica, una discreta tradizione sportiva e una forte identità. Insomma, ammesso che esistano franchigie attualmente a serio rischio di relocation, non si tratta certo dei Mavericks. La scelta ricadrebbe su mercati più piccoli, fanbase meno affezionate, arene meno redditizie e situazioni proprietarie più incerte.

La seconda ragione è che sembra decisamente improbabile, allo stato attuale almeno, che la lega scelga la via di una relocation per consegnare la franchigia promessa a Sin City. A tal proposito è utile ricordare innanzitutto che in caso di espansione, e dunque di allargamento del campionato a 32 squadre (con due new entry), le nuove franchigie sarebbero tenute a versare un assegno d’ingresso da circa 7 miliardi di dollari ciascuna. Che verrebbero suddivisi tra le altre organizzazioni, per un totale di oltre 450 milioni a testa. Perché, dunque, il Board of Governors - l’ente governativo della lega, in cui siedono le 30 proprietà - dovrebbe approvare l’ingresso di Las Vegas dalla porta sul retro, “gratis”? Lo stesso Adam Silver ha dichiarato di recente che “l’NBA ha un comitato dedicato alla possibile espansione”, e di “non essere a conoscenza di franchigie attualmente intenzionate a trasferirsi”.

Mavs, Texas e gioco d’azzardo

Non so perché la gente creda questa cosa”, ha detto Patrick Dumont, in risposta ai rumors circolati nell’ultimo periodo. “È vero, noi viviamo a Las Vegas, ma abbiamo investimenti in tutto il mondo e la nostra strategia per i Mavericks è radicata qui. Dallas è la città dove vogliamo essere, e dove stiamo investendo per restare. Non siamo qui per portare la squadra altrove. Siamo qui per farla crescere in Texas.” Dopo aver acquisito la maggioranza della franchigia dal precedente owner, Mark Cuban, in molti si sono chiesti quali interessi avesse la ricchissima famiglia - incluso Dumont, che è genero di Miriam Adelson - per una squadra NBA texana, in un mercato dove il gioco d’azzardo - principale business di Las Vegas Sands - è soggetto a norme particolarmente restrittive. La risposta è semplice: avere una forte leva locale per costruire consenso (su questo forse la trade-Doncic non è stata d’aiuto), visibilità e infrastrutture in Texas; e si pari passo, esercitare pressioni per un cambio normativo, e quindi per farsi trovare in pole position in uno scenario del genere.

A 20 km di Dallas, nella città di Irving, c’è una prova concreta sia dei progetti a lungo termine degli Adelson in città, sia del lavoro dietro le quinte per creare un hub del gioco d’azzardo in Texas, se e quando la legge lo consentirà. I proprietari dei Mavs hanno acquistato un’area di 182 acri, l’ex sito del Texas Stadium, dove l’intenzione è costruire un’arena da almeno 15.000 posti in stile Intuit Dome di Inglewood, la nuova casa dei Clippers, un hotel di lusso da oltre 1.750 stanze, strutture commerciali, spazi pubblici e - indovinate un pò - un enorme casinò resort. La richiesta di modifica urbanistica è stata già approvata a livello preliminare dal consiglio cittadino, ma la partita si gioca principalmente sul piano legislativo dello Stato. Un’arena privata e autonoma con tutti i benefici economici e logistici del caso, pensata per massimizzare i ricavi da eventi, corporate seating e naming rights e rafforzare l’identità del team, sarebbe una svolta per i Mavs, che attualmente condividono l’American Airlines Arena con i Dallas Stars (NHL), con contratto di locazione in scadenza nel 2031. Intanto, sono stati acquistati anche 12 acri di terreno in centro a Dallas, per realizzare un nuovo centro di allenamento. Non sembrano proprio gli step precedenti a una relocation, ecco.

Per quanto riguarda la costruzione del casinò, come detto, prima di tutto serve cambiare la legge. Il Texas ha una delle regolamentazioni più rigide in assoluto sul gambling, e l’unica via è un emendamento costituzionale, che richiede due terzi dei voti nelle camere statali e poi un referendum pubblico. Las Vegas Sands ha iniziato da anni un’opera di lobbying senza precedenti: solo nel 2024, ha donato 13.7 milioni di dollari a comitati politici texani, con principali beneficiari i repubblicani Dade Phelan e Dan Patrick. Secondo un report della Texas Public Policy Foundation, la legalizzazione dei casinò potrebbe generare tra i 5 e i 7 miliardi di dollari di entrate annue per lo Stato, e creare circa 100.000 nuovi posti di lavoro. Numeri che spiegano l’interesse di tante lobby a vincere (a qualsiasi costo) la resistenza di gruppi religiosi e conservatori. Ad oggi, in ogni caso, influssi di denaro e le scelte logistiche della famiglia Adelson descrivono chiaramente un piano radicato sul territorio texano. L’idea che la proprietà voglia abbandonare Dallas, insomma, stride con l’evidenza, tanto sul breve periodo quanto a medio-lungo termine.

L’NBA arriverà a Las Vegas?

Tutto questo non mette in secondo piano o in stand-by l’avanzata di Las Vegas come candidata per un posto in NBA. Tutt’altro: nell’ultimo decennio la città del Nevada ha vissuto una trasformazione radicale, diventando una delle più attraenti per le leghe professionistiche americane. I Raiders sono sbarcati in NFL, i Golden Knights in NHL (e hanno già vinto la Stanley Cup), le Aces dominano la WNBA, e tutto fa pensare che la NBA sarà la prossima tessera del puzzle.

Le strutture non mancano: la T-Mobile Arena è moderna (inaugurata nel 2016), capiente (20.000 posti) ed è già stata testata con la Summer League. E neanche a dirlo, gli incentivi economici per portare il circus NBA nella Sin City sono appetitosi. Tra i tanti potenziali investitori, il gruppo Fenway Sports - già proprietario di Liverpool (calcio), Boston Red Socks (baseball) e altre grandi realtà del settore sportivo - si è mosso con LeBron James e RedBird Capital per un’eventuale nuova franchigia a Las Vegas. E rimanendo dentro l’NBA, hanno mostrato interesse anche Tilman Fertitta (proprietario degli Houston Rockets), Steve Ballmer (Los Angeles Clippers) e pure Mark Cuban, che pur avendo ceduto i Mavericks, ha detto recentemente a Shaquille O’Neal (ex giocatore): “Se ci mettiamo io, te e LeBron, qui si potrebbe fare qualcosa di interessante…” Dal canto suo, l’NBA ha lasciato intendere più volte che Las Vegas, insieme a Seattle (pronti al ritorno dei SuperSonics?), sia in prima fila in caso di espansione. E dopo anni di attesa, ora il momento potrebbe davvero essere alle porte.