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Il fascino intramontabile della Parigi-Roubaix

Domenica torna la Regina delle Classiche, la corsa ciclistica più attesa dell'anno

Il fascino intramontabile della Parigi-Roubaix Domenica torna la Regina delle Classiche, la corsa ciclistica più attesa dell'anno

Secondo un passaggio recuperabile sul sito ufficiale: “la Parigi-Roubaix è una corsa per specialisti, forse la più indomabile delle classiche e certamente quella con i requisiti fisici e tecnici più severi”. Una definizione che si lega perfettamente a un soprannome elegante e aristocratico con cui è stata ribattezzata la corsa, ovvero la Regina delle Classiche. Secondo invece la citazione più famosa nella storia della Parigi-Roubaix, si tratta di: “una gara di merda! Corriamo come animali e non abbiamo neppure il tempo per pisciare, quindi ce la facciamo addosso. Si corre nel fango, si scivola dappertutto, è una montagna di merda!”

Le parole sono di Theo de Rooij e vennero pronunciate ai microfoni della CBS al termine dell'edizione 1985 per ribadire con forza il secondo soprannome con cui viene chiamata la Parigi-Roubaix ovvero l’Inferno del Nord. Qualsiasi punto di vista si scelga, il risultato non cambia: la Parigi-Roubaix è una corsa ciclistica senza paragoni, una gara affascinante che costringe chiunque vi partecipi a fare i conti con i propri limiti fisici, ad affrontare il dolore e a testare la propria forza di volontà. 

Le pietre della Roubaix

Senza dubbio il primo elemento che rende unica la Parigi-Roubaix è il pavè, che costituisce cinquantacinque dei duecentosessanta chilometri complessivi che separano Compiègne, la città dalla quale dal 1977 parte la corsa anche se nel nome è rimasta la sede originale, dal velodromo di Roubaix. Il passaggio più famoso lo si vive attraversando quella che è stata ribattezzata come Foresta di Arenberg, uno dei tre settori caratterizzati dalle 5 stelle di difficoltà, ovvero un rettilineo di 2,5 chilometri con una piccola striscia di ciottoli che corre internamente ad un bosco situato vicino alla città di Wallers sistemati per la prima volta dall'esercito napoleonico e successivamente utilizzati per collegare le miniere di carbone della zona.

Leggenda vuole che a scovare questo tratto fu Jean Stablinski, incaricato dal direttore della corsa Jacques Goddet di localizzare quante più strade in pavé possibili da inserire nel percorso di gara. Questo tratto di corsa è stato utilizzato per la prima volta nel 1968 e da allora è uscita solo una volta dal programma, nel 2005. La scena che si ripete è sempre la stessa: ciclisti che si accalcano in testa al gruppo per entrare per primi nel settore e ridurre al minimo il rischio di una caduta sui sassi che non solo metterebbe a rischio la gara ma anche la carriera se non addirittura la vita. Come accaduto al tre volte vincitore Johan Museeuw, il quale raccontò di aver rischiato l'amputazione di una gamba in seguito ad una caduta nella foresta in quanto la sua ferita al ginocchio si era infettata con il letame presente sulla strada.

L'arrivo al velodromo di Roubaix

Per l’edizione 2025 della gara maschile sono previsti 30 settori in pavé ovvero tratti di strada in cui la bici è ingovernabile, in cui le mani si riempiono di vesciche e i muscoli si induriscono per la vibrazione della bici, dove il minimo errore si paga con una caduta, dove si può bucare e buttare all’aria tutto. Se però i corridori sono in grado di superare tutto questo, la ricompensa è senza prezzo. La Parigi-Roubaix infatti si conclude presso il Vélodrome André-Pétrieux ovvero l’impianto inaugurato nel 1936 e che da allora, salvo rare eccezioni, ha sempre accolto i ciclisti sporchi di polvere e fango per l’ultimo tratto della corsa. Un giro e mezzo del circuito, una striscia circolare di 750 metri, che a volte rappresenta la passerella finale per chi è riuscito ad andare in fuga solitaria e che a volte si trasforma nel saloon per il regolamento di conti finale tra fuggitivi a caccia della vittoria.

La decisione di concludere la gara in un velodromo rappresenta il motivo stesso dell’esistenza della Parigi-Roubaix dato che la prima edizione nel 1896 si tenne proprio per sponsorizzare la costruzione del Vélodrome Roubaisien, impianto finanziato dagli imprenditori Théo Vienne e Maurice Perez i quali convinsero il direttore della rivista Le Vélo ad organizzare una corsa che partisse da Parigi per concludersi in un velodromo vicino al confine con il Belgio.

Le docce 

C’è un ultimo aspetto che rende questa corsa al limite tra l’eroico e il romantico ancora più affascinante. È però un passaggio che possono godersi a fondo solo i ciclisti. Il Vélodrome André-Pétrieux è infatti dotato di una stanza per le docce che però è ancora la stessa del giorno della sua inaugurazione. Una stanza con decine di docce separate da piccole pareti in cemento su cui sono applicate delle targhette riportanti i nomi dei vincitori e con una sistema a catenella per attivarle. Un luogo mistico, in cui il ciclista può finalmente respirare e cominciare a prendere coscienza: delle ferite, dei dolori, dei propri sentimenti.

In passato il passaggio dei ciclisti da questa stanza era quasi una conseguenza naturale al termine della corsa, ora non è più così scontato. Le squadre professionistiche d’altronde sono dotate di strutture mobili studiate anche per offrire il miglior recupero possibile dopo una gara. Ciò nonostante il lato romantico resiste e quasi tutti i corridori almeno una volta in carriera, oltre a partecipare alla Parigi-Roubaix, si fanno la doccia in questo luogo per respirare la storia. C’è chi si abbandona ad una lunga doccia espiatoria, c’è chi resta sotto l’acqua giusto il tempo necessario per bagnarsi, c’è chi si fa immortalare per motivi di sponsorizzazione e c’è chi per decomprimere la pressione scherza con altri ciclisti. Tutti soddisfatti oppure sollevati di aver portato a termine la corsa su strada più dura e affascinante della storia del ciclismo.