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Il Play-In è la risposta dell’NBA a tante domande

Non a tutte, ma più di quelle per cui sono nati gli spareggi

Il Play-In è la risposta dell’NBA a tante domande Non a tutte, ma più di quelle per cui sono nati gli spareggi

Giusto il tempo di far scorrere i titoli di coda sulla stagione regolare, conclusa con il maxi-turno in contemporanea di questo weekend, e per l’NBA è già l’ora di tornare in campo. Nelle prossime due nottate si giocheranno gli spareggi Magic-Hawks e Warriors-Grizzlies stanotte, Bulls-Heat e Kings-Mavs domani sera: le prime quattro sfide del Play-In Tournament, l’imprevedibile e adrenalinico crocevia che da cinque anni segna la transizione dalla Regular Season ai Play-offs.

Inaugurato nel 2020 in via provvisoria, ma rivelatosi presto ben più che un rattoppo, il Play-In Tournament oggi è uno snodo cruciale della stagione NBA. Non solo nella sua dimensione di evento nell’evento, anche per le nuove carte in tavola portate dall’introduzione di un mini-torneo con quattro posti ai Playoffs in palio; un nuovo punto fermo e polo gravitazionale per la lega (struttura competitiva, calendario, visibilità), per le 30 franchigie (e i rispettivi obiettivi stagionali), per tutto il mondo (media, pubblico) e le logiche (di prodotto, di ricavi) di contorno.

Per addentrarsi nel discorso può essere utile riavvolgere il nastro, partendo dalle fondamenta; cioè dal pieno della pandemia, nell’estate in cui l’NBA era barricata nella bolla di Orlando e il Play-In si mostrava per la prima volta al pubblico.

Com'è nato il Play-In Tournament

Il formato è nato nell’anomalo contesto della regular season 2019/20 interrotta a inizio marzo, messa in standby per qualche mese, e quindi ripresa nella bolla, con invito riservato a 22 squadre. In quel momento per comporre rapidamente la griglia playoff e portare la stagione a termine, in un contesto di per sé non entusiasmante, all’NBA serviva un’idea; un modo per dare un senso sportivo e di continuità, tenendo insieme la necessità di confezionare il prodotto più sexy possibile con i criteri meritocratici di campo. Ed ecco il Play-In.

L’introduzione di qualche partita secca, a eliminazione diretta, era nei pensieri di Adam Silver da tempo. Già prima della bolla il commissioner ne aveva parlato tra i possibili scenari di riforma, spiegando più di una volta i benefici che ne avrebbe tratto l’intera struttura, e che stiamo apprezzando in questi anni. Il 2020 si è presentato come occasione perfetta per un test. Fu introdotta quindi una regola, valida per entrambe le Conference: se la nona classificata fosse arrivata a meno di quattro partite di distanza dall’ottava, come accadde a ovest, si sarebbe svolto uno spareggio per l’ultimo posto ai Playoffs. Con un netto vantaggio, eccessivo forse, garantito di diritto all’ottava, cui in pratica si assegnavano due vite visto che in caso di vittoria della nona si sarebbe giocata una decisiva Gara 2; un rimedio ideato per compensare l'impossibilità di valorizzare il fattore campo dentro la bolla, un problema che si sarebbe automaticamente risolto con il semplice ritorno alla normalità.

Al netto di questa sproporzione, il primo riscontro fu senz’altro positivo da ogni punto di vista. Sia come audience, interesse, feedback di tifosi e addetti ai lavori, quanto al non quantificabile - ma tangibile - contributo nel rendere attraente il finale di stagione regolare. Abbastanza, insomma, per esportare il Play-In al di fuori di Disney World, confermando il formato per la stagione successiva. Dalla seconda edizione è stata adottata una formula più articolata: settima contro ottava per il primo pass, e chi perde ha un’ultima chance nello spareggio contro chi vince tra nona e decima. Un mini-tabellone che ha regalato, al debutto, una sfida di enorme visibilità e appeal mediatico, che ha generato numeri ancora oggi da record; ovvero, il testa a testa con finale clutch tra LeBron James e Steph Curry, una sure bet per l’NBA - e linfa vitale per l’identità, la popolarità e in un certo senso la legittimità dei nuovi spareggi. Da allora il Play-In non è più un tappabuchi o un esperimento, ma la regola. Ed è qui per restare, come ricorda Adam Silver ad ogni occasione possibile.

Le soluzioni del Play-in

Il Play-In ha prima di tutto il merito di aver introdotto nuovi stimoli in una regular season lunghissima di 82 partite e alle prese da tempo con le difficoltà nell’offrire al pubblico partite - se non tutte, la maggior parte almeno - che contino qualcosa, abbiano un significato. Dare un valore e un senso anche al basket di marzo e inizio aprile, oltre che far intravedere un traguardo e uno stimolo a chi naviga nei bassifondi della classifica, è infatti un vecchio cruccio per la lega. E in quest’ottica il Play-In, grazie a cui solo cinque squadre per Conference su 15 sono fuori dai giochi al termine della regular season, ha dato una grossa mano.

Nel 2021 Silver sottolineava compiaciuto come l’avvento degli spareggi avesse migliorato le ultime settimane di calendario, tenendo in corsa ben 24 squadre fino al fotofinish. Ovviamente si tratta di un numero fluttuante di anno in anno - la stagione appena conclusa, ad esempio, non ha regalato un finale scoppiettante, soprattutto a est - e comunque sarebbe errato pensare che il Play-In abbia risolto il problema del tanking (in sintesi: giocare per perdere e quindi per avere una scelta più alta possibile al Draft); semmai ne ha mitigato gli effetti negativi sul campo, offrendo un’alternativa a quelle organizzazioni potenzialmente perse nella terra di mezzo. E da un punto di vista strategico, se in sede di mercato capita da qualche anno di sentire parlare di “front office determinati a rinforzare il roster per raggiungere il Play-In”, per la lega è un buon indicatore.

Non ultimo, ci sono le partite. Secche, “win or go home”: oro colato per un campionato che, dopo l’eterna regular season, da sempre diluisce il pathos dei Play-offs su serie lunghe, al meglio delle sette gare. Anche per questo l’NBA ha guardato a modelli, tra gli altri, come NFL, NCAA ed Eurolega: tutte competizioni che vivono sulla forza dell’eliminazione diretta. E i dati raccolti nelle prime cinque edizioni del Play-In ci dicono, senza troppi giri di parole, che è stata la scelta giusta.

Il boom di spettatori

Il torneo pre-playoff ha vissuto negli ultimi anni una crescita costante a livello di audience. L’apice è stato il già citato Lakers-Warriors del 2021, che ha unito 5.6 milioni di spettatori negli Stati Uniti su ESPN, ad oggi il primato per uno spareggio. E da lì in poi, nonostante fluttuazioni inevitabili, il formato ha retto consolidandosi come uno dei momenti di punta della stagione televisiva NBA.

Nel 2023, ad esempio, la media degli ascolti - sempre negli Stati Uniti - per le partite di Play-In è stata di 2.6 milioni di spettatori, in crescita del 14% rispetto all’anno precedente. Nel 2024, il record: media di 3.2 milioni di spettatori (+22%) sulle sei partite trasmesse tra TNT, truTV, ESPN ed ESPN2. Un risultato che si è reso possibile grazie soprattutto ai due “big market” coinvolti: ancora loro, Golden State Warriors (in campo contro i Kings, 4.1 milioni di viewers) e Los Angeles Lakers (Pelicans, 3.9), impegnati rispettivamente nella seconda e terza partita più viste nella giovane storia dell’evento. In generale, le cinque serate di Play-In che hanno coinvolto San Francisco e Los Angeles sono state le cinque più viste in assoluto. E non è una coincidenza, ma un chiaro trend: l’interesse per il Play-In riflette quello per i nomi, i mercati e le fanbase che finiscono agli spareggi.

Oltre all’audience, c’è un ultimo aspetto che rende il Play-In un evento prezioso il fatturato diretto. Le partite secche, giocate in casa, sono eventi che portano pubblico, biglietti e attivazioni commerciali quasi a livello playoff. Per una franchigia, insomma, una gara di Play-In può valere milioni.

Riflessi

Non tutti, ovviamente, amano il Play-In. E la prima obiezione da sempre è quella della “giustizia sportiva”, ovvero la possibilità che una squadra settima in classifica possa uscire in una sola partita contro la decima, magari con dieci vittorie in meno in regular season. La regola iniziale esigeva un gap massimo di quattro partite per giocare lo spareggio, ed era pensata proprio per questo; da quando il Play-In è diventato stabile, però, la differenza in classifica non è più una protezione.

Adam Silver ha riconosciuto la questione. “Capisco la frustrazione, soprattutto delle squadre che finiscono al settimo posto”, diceva nel 2021, “ma penso che tutti riconoscano quanto interesse aggiuntivo il Play-In abbiamo generato nel finale di stagione. E il bilancio, in termini di attenzione e benefici, è più che positivo per tutti.” In effetti i vantaggi sono impossibili da ignorare. Per la lega il Play-In ha portato a un incremento del 15% dell’audience nell’ultimo mese di stagione regolare, proprio perché più squadre ora lottano per rientrare tra le prime dieci. Per le franchigie significa più incassi e visibilità, per il pubblico un traguardo da raggiungere e superare, e per i broadcaster, ulteriori contenuti di qualità.

Non sorprende che il Play-In, strutturato all’americana, sia diventato così un modello replicato da altre competizioni, come l’Eurolega ad esempio, che dal 2023 ha introdotto una formula identica (spareggio tra settima, ottava, nona e decima). Si può dire dunque che dal 2020 in avanti Adam Silver e soci hanno trasformato un’esigenza contingente in un grande esperimento, e quindi in un’innovazione competitiva. Già, l’ennesima volta in cui l’NBA si è confermata - prima ancora che un campionato cestistico - una macchina da dollari che ottimizza contenuti, trasforma i limiti in opportunità e ispira gli sviluppi dello sport globale.