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È stato giusto fermare la Serie A per la morte di Papa Francesco?

Un’usanza contraddittoria e tutta italiana

È stato giusto fermare la Serie A per la morte di Papa Francesco? Un’usanza contraddittoria e tutta italiana

Proprio nell’anno in cui la Serie A è tornata in campo nella domenica di Pasqua, nessun pallone è rotolato durante il Lunedì dell’Angelo (Pasquetta). A una manciata d’ore dal fischio d’inizio della prima partita, e poco dopo che i notiziari di tutto il mondo avevano riportato la notizia della morte di Papa Francesco, la Federcalcio ha annunciato infatti lo stop ad ogni competizione, in segno di lutto per la scomparsa di Jorge Mario Bergoglio.“Sono sospese tutte le competizioni in programma nella giornata di oggi, dalla Serie A ai Dilettanti”, ha spiegato Gabriele Gravina, presidente della FIGC. “Il calcio italiano partecipa commosso al dolore di centinaia di milioni di persone per la scomparsa di Sua Santità Papa Francesco. Grande esempio di carità cristiana e dignità nella sofferenza, si è sempre mostrato attento al mondo dello sport e al calcio in particolare, di cui era appassionato. La sua vicinanza umana e spirituale ai malati, ai poveri, ai perseguitati di tutto il pianeta”, prosegue Gravina, “è stata la sua testimonianza più profonda, un faro che illuminerà le generazioni a venire. Resterà per sempre nei nostri cuori di fedeli e amanti del calcio.”

La decisione è stata raccomandata dal CONI a tutte le federazioni affiliate, anche di altre discipline oltre al calcio, e quindi predisposta dalla FIGC per ogni categoria. Ecco dunque l’annuncio del rinvio di quattro partite di Serie A (Torino-Udinese, Cagliari-Fiorentina, Genoa-Lazio e Parma-Juventus), dell’intero turno di Serie B e di tante altre gare in programma nella giornata di ieri, tra leghe inferiori e giovanili. Le date previste per i recuperi: domani 23 aprile per la Serie A, lunedì 13 maggio per la Serie B.

I precedenti in Serie A

Guardando al recente passato del nostro Paese, non si tratta di una prima volta: era già successo nel 2005, nel giorno della morte di Giovanni Paolo II; ma non nel 2022, per la scomparsa di Benedetto XVI (un po’ per la distanza di quasi una settimana dal turno successivo, un po’ per la posizione senza precedenti di Papa emerito). Andando a ritroso, invece, non si trovano particolari evidenze in tal senso: il decesso di Paolo VI si era verificato durante la pausa estiva del campionato (agosto 1978), in modo analogo al suo successore Giovanni Paolo I (a ridosso della prima giornata, ma dopo un brevissimo pontificato) e al suo predecessore Giovanni XXIII (giugno 1963). Nel 2025, con Papa Francesco mancato proprio durante la festività pasquale, la tradizione si è riattivata: il calcio ha sentito, per statuto o per inerzia, di dover aderire un’altra volta a questo momento di lutto istituzionale. E pur trattandosi di una scelta che non necessita di spiegazioni formali, per via della sua continuità con il passato, è proprio da questo attributo di automatismo che possono sorgere degli interrogativi. Il più banale, che in tanti si sono posti dopo aver appreso la notizia: perché si continua a fermare lo sport, e in particolare il calcio (con tutti gli interessi che muove nel nostro Paese), per la morte di un Papa? E perché succede solo in Italia?

Il gesto, inevitabilmente, ha prodotto effetti poco desiderabili nell’immediato: partite rinviate all’ultimo (con relative implicazioni di campo e logistiche), squadre che comprimono ulteriormente i calendari (in un periodo di grande tensione sul tema), impegni e trasferte da riprogrammare per i tifosi (pensando soprattutto a quelli in trasferta) e per gli addetti ai lavori (con un preavviso minimo, durante le festività). Il tutto, per le realtà della massima serie coinvolte, con un infrasettimanale da organizzare all’ultimo e da giocare domani in una scomoda fascia pomeridiana (18.30), per evitare la sovrapposizione con il derby di Coppa Italia (ritorno della semifinale Inter-Milan, ore 21:00). Il programma che era stato allestito per riempire le festività degli italiani, favorire l'affluenza negli stadi e massimizzare l’audience televisiva, insomma, si è trasformato in un turno spezzato su più giorni, e che verrà disputato parzialmente in una fascia non certo vantaggiosa della settimana. A cavallo tra un weekend festivo e il ponte per il 25 aprile, in modo quasi beffardo.

Come cambierà il calendario di Serie A

Il calendario, se non altro, è stato stranamente d’aiuto. Tra le squadre coinvolte non figurano infatti club impegnati a stretto giro in altre competizioni, come Inter e Milan che avevano giocato sabato, Bologna ed Empoli impegnate nell’altra semifinale di Coppa Italia, confermata giovedì sera. Resta soltanto la Fiorentina, che settimana prossima volerà in Spagna per sfidare il Betis in semifinale di Conference League, all’interno di una serrata tabella di marcia da 10 partite in 35 giorni, ora ulteriormente condensata. Nel complesso, almeno dal punto di vista logistico, l’incastro è stato abbastanza fortunato per i club di Serie A. Alla Serie B invece non è andata altrettanto bene. Anzi, l’omaggio simbolico al Papa è diventato una complicazione sistemica non indifferente. Tutte le dieci partite saranno infatti recuperate il 13 maggio: un arco di tempo che condiziona le corse promozione e salvezza, la definizione dei turni di playoff, la programmazione di fine anno, e tutto questo in un contesto con una disponibilità inferiore rispetto alla massima serie.

Al di là dei fattori contestuali, che per forza di cose variano da un ambiente all’altro, fermare il calcio in Italia significa bloccare un sistema che coinvolge decine di squadre, migliaia di lavoratori (dentro e fuori dagli stadi), milioni di tifosi e telespettatori. Si tratta infatti di un settore che nel nostro Paese coinvolge, direttamente e indirettamente, una fetta non irrilevante di popolazione, e che genera indotti in modo trasversale (considerando anche trasporti e ristorazione, ad esempio). E tutto questo ci riporta alle due domande da cui siamo partiti.

Ha senso fermare il calcio italiano?

Non si tratta di discutere se ne valga la pena: sarebbe un approccio cinico, e probabilmente irrispettoso. E nemmeno di stabilire delle priorità, o di elevare il calcio a una sfera che non compete a un movimento sportivo. Il punto su cui si può riflettere, piuttosto, è se una scelta così drastica sia davvero l’unica forma possibile di omaggio. Le parole di Gravina non sarebbero potute essere sufficienti? Magari con un minuto di silenzio sui campi, o con un rituale meno inflazionato e più spontaneo per sottolineare l’importanza del tributo. Anche perché il lutto di Papa Francesco è accaduto il primo anno nel quale la FIGC aveva scelto di giocare a Pasqua, seguendo la linea degli altri campionati e sport internazionali.

Se in Inghilterra, Spagna, Germania, Francia e Olanda - per non parlare degli Stati Uniti, con le “Christmas games” di NFL e NBA - giocare durante le festività è la regola, in Italia i turni natalizi e pasquali sono da sempre un tema divisivo. Il retaggio culturale ha dimostrato a più riprese di pesare sulla libertà decisionale delle sue istituzioni sportive, scontrandosi con le nuove esigenze organizzative - cioè giocare e guadagnare sempre di più - del movimento. Lo scontro tra sfera culturale e intrattenimento sportivo non è una sorpresa: il calcio italiano ha mantenuto viva per decenni la regola non scritta di evitare turni nella domenica di Pasqua. È stato così dal 1978 in poi, salvo rarissime eccezioni (Perugia-Inter nel 2004, Reggina-Udinese nel 2009) che furono accolte con dure critiche dal mondo ecclesiastico. Il cardinale Ennio Antonelli disse ai tempi che “il dio calcio si impone su ogni festività religiosa”, ad esempio; mentre il portavoce CEI Giorgio Constantino aggiunse che “le partite a Pasqua distraggono la gente dai doveri del buon cristiano”.

Nel 2025 la Serie A aveva scelto di rompere la consuetudine ed emanciparsi da tutto ciò. Coerentemente, si può dire, con un sistema che adatta il calendario alle esigenze televisive, che allarga (o non snellisce) le competizioni, magari espatriandole, per renderle più remunerative, e che in generale si mostra al gioco delle logiche di bilancio. Lo stop per la morte del Papa, una scelta morale, sembra invece un dietrofront valoriale. Con questo, è bene chiarirlo, non si vuole discutere il rispetto per la figura del Papa, ma la forma che assume. Fermare il calcio per la morte del Pontefice, proprio dopo aver sdoganato le partite a Pasqua, è infatti una contraddizione che ci racconta molto del nostro Paese. Un riflesso antico che riaffiora senza discussione, e che sembra scollegato dal presente. Più che un atto di rispetto, insomma, un’abitudine tutta italiana che nessuno si prende la responsabilità di mettere in discussione.

Cos'è successo nel resto del mondo

In nessun altro Paese, d’altronde, lo sport si è fermato, ieri così come in passato, pure in contesti dalla forte impronta cattolica. Si è giocato ad esempio in Spagna, in Polonia dove anche nel 2005 non ci si era fermati, nonostante Giovanni Paolo II fosse nativo di Cracovia, in Francia, in Portogallo, oltre che in Germania, Inghilterra e Olanda. E anche nel mondo latino (Brasile, Colombia, Messico, Cile), fatta eccezione soltanto per il calcio argentino, che merita però un discorso a parte. A Buenos Aires infatti, al contrario di quanto accaduto in passato, si è scelto stavolta di omaggiare il proprio pontefice con 24 ore di stop. Una decisione che affonda le radici nel legame viscerale che univa Bergoglio, tra le altre cose tifoso del San Lorenzo, e l’universo calcistico argentino; un ambiente che da sempre svolge una funzione sociale ed educativa difficilmente paragonabile ad altri contesti, e per questa connessa in modo intimo alla sfera pubblica.

Se in Argentina la sospensione è sembrata naturale e dovuta a un caso straordinario, in Italia è stata percepita come automatica, convenzionale, quasi inevitabile. E su questo si affaccia la riflessione su cosa giustifichi uno stop così esteso in un Paese laico, per la morte del capo di un altro Stato. Certo, la figura del Papa in Italia ha connotati ben più ampi dalla dimensione politica; l'autorità spirituale e l’influenza culturale che esercita - sui cittadini, sulle istituzioni, sul Paese nella sua interezza - sono storicamente note. Premesso tutto ciò, non esiste alcuna norma che imponga o suggerisca di mettere lo sport in standby. Lo si fa nel nome della consuetudine e della tradizione, ma il confine tra omaggio e automatismo diventa sottile quando la scelta è legittimata soltanto dal consolidamento di una prassi. E soprattutto quando risulta divisiva all’interno del contesto che rappresenta.