The history of football signature boots
NSS - New Sport Side
28 Gennaio 2016
È cambiato tutto nel 1998. Quando i Mondiali francesi portano in dote, oltre all’immenso talento di Zinedine Zidane, una rivoluzione forse pari a quella che Michael Jordan aveva messo in atto qualche anno prima in NBA. È nel 1998 infatti che nascono le prime signature shoe da calcio. E lo fanno con il giocatore più importante del mondo (che poi diventerà uno dei più importanti di sempre) atteso in quel Mondiale alla definitiva consacrazione: Luis Nazario da Lima, o semplicemente Ronaldo.
In quel torneo, durante la quasi ovvia finale tra Francia – padrona di casa – e Brasile andò anche in onda uno dei più grossi misteri di sempre: Ronaldo scende in campo come fosse uno zombie, colpito qualche ora prima da un virus che gli aveva portato vomito e febbre alta. Un’altra similitudine con MJ, colpito da un insipiegabile malore poco prima di Gara 5 dei Playoff del 1997, in quella che passerà alla storia come “The Flu Game” (la gara della febbre).
La storia delle scarpe da calcio tuttavia, viene indelebilmente segnata dalle Mercurial R9, la prima signature di sempre. Grigie, con delle onde blu, le prima Mercurial contenevano un booklet dove si annunciava che la leggerezza sarebbe stata prerogativa dello scarpino, che poteva aumentare la velocità di un duecento-mentrista del 3%.
Da lì in avanti, prima circa ogni due anni, poi sempre più assiduamente, la Nike ha cominciato a mettere in commercio nuove versioni di Mercurial. La più celebre è probabilmente quella del 2006, inaugurata proprio da Ronaldo (ma anche dall’altro Ronaldo, Cristiano) durante i Campionati del Mondo, ovviamente la massima vetrina espositiva possibile.
La R10 è stata più di una semplice signature. Durante gli anni di massimo splendore di Ronaldinho al Barcellona, il Gaucho programmò una vera e propria linea d’abbigliamento con la Nike. In particolar modo fascette e polsini, ma anche magliette e pantaloncini. Le scarpe invece erano una versione personalizzata delle Tiempo, di un nero un po’ sbiadito e molto nostalgico.
Nel 2005 però, la commercializzazione delle scarpe da calcio ha fatto un altro importante, e decisivo passo in avanti. Le Nike Tiempo Touch of Gold, bianche e oro, disegnate appositamente per la linea del numero dieci brasiliano, vengono presentate attraverso un video caricato dalla Nike su Youtube. Il video è quello delle traverse di Ronaldinho, passato alla storia come “Crossbar” e diventato il primo video di Youtube a raggiungere quota 1 milione di view.
L’ultima generazione di scarpini Nike è stata caratterizzata dalla folle ricerca della leggerezza a tutti i costi. I colori accesi, le fantasie molto particolari che avevano trovato terreno fertile verso la fine degli anni ’10, sono state sostituite, o per meglio dire implementate, dalla fibra di carbonio prima, dalla protezione per le caviglie poi.
Nel 2014, mentre Cristiano Ronaldo preparava la nascita del suo marchio, la Nike riponeva tutte le sue speranze nel portoghese, creando le Nike Mercurial CR7, abbandonando l’effetto vintage per favorire l’ideale robotico di Ronaldo. Qualche tempo fa, l’approdo anche nel mercato femminile, con la prima signature di una calciatrice, ad opera di Carli Lloyd, a cavallo dell’onda che aveva portato le giocatrici in copertina di FIFA 16.
Durante l’inizio di questa stagione invece Nike haconsegnato a Lewandoski – protagonista assoluto del primo mese e mezzo di calcio giocato con gli oramai celebri 5 gol in trenta minuti – una edizione personalizzata delle Nike Hypervenom, rosse e con l’aquila simbolo della Polonia disegnata. Le stesse Nike Hypervenom che hanno fatto da base al prossimo pupillo della Nike: Neymar. Qualche tempo fa è girata la voce che voleva la Jordan pronta a investire nel mercato calcistico, scegliendo come campione proprio il brasiliano. Non ci sono più state novità du quel fronte, ma la Nike ha rilanciato con le Ousadia Alegria, un' edizione super limitata di 1000 pezzi disegnata dall’artista Bruno Big proprio per Neymar Jr.
Se il mercato delle signature calcistiche è stato in un certo qual modo “iniziato” dal brand americano, il suo storico rivale non c’ha messso poi troppo ad andargli dietro. Già nel 1998, adidas aveva lanciato – da qualche anno – la sua più icononica scarpa da calcio, la Predator. Tra i prescelti per indossarla, proprio quel Zinedine Zidane che detronizzò il Fenomeno, prendendosi gloria (eterna) e Coppa.
E dall’edizione successiva però che la Predator comincia a diventare il vero e proprio marchio distintivo del brand tedesco. La rivoluzione si basa su due elementi: il velcro abbassato, pubblicizzato come ideale per gli specialisti dei calci da fermo, e David Beckham. L’inglese è stato, per tutta la sua carriera, il maggior boost che ha trasportato il calcio da sport di massa a elemento di cultura pop. Le copertine, i contratti di sponsorizzazione per l’alta moda, con David Beckham il calcio si riscopre malato di marketing e di vendite.
Le DB Predator cominciano quindi a diventare un elemento stilistico necessario, David Beckham si vede creato un apposio Logo – una stilizzazione della sua classica posa al momento di tiro – e le creazioni di susseguono. L’apoteosi della brandizzazione avviene nel 2003, quando Beck’s lascia Manchester per approdare nella molto più glamour Madrid, oltre che storica firma adidas.
L’anno seguente nascono le DB Predator Pulse, total grey, velcro rosso, prodotte in soli 723 pezzi (7 come il numero di David in nazionale, 23 come quello di club). Arriveranno tanti altri modelli, dalle adiPower alle Predator X, fino ad arrivare alle CloseUp, indossate dall’inglese durante la sua ultima partita da professionista, con il PSG, e rappresentati i colori della Gran Bretagna, oltre che i nomi dei 4 figli sul tallone.
Il sostituto adidas ce l’ha in realtà già in casa. Leo Messi viene strappato a Nike in occasione dei Mondiali del 2006. Adidas gli cuce addosso una nuova collezione, adatta al suo stile di gioco, che poco assomiglia a quello di Zidane o di Beckham. La F50+ diventa allora la scarpa di Leo, che nel frattempo comincia a collezionare successi e palloni d’oro.
Il suo talento, le sue vittorie, riescono a guarire anche un' immagine mediatica e social non di prim’ordine. Per quanto forte infatti, Messi viene considerato uncool per molto tempo, fino alla trasformazione deegli ultimi anni. I capelli più corti, i tantissimi tatuaggi sulle braccia, fanno da contraltare al pesante investimento del bran tedesco su di lui, che gli regala un logo tutto suo e una serie di signature di alto livello.
Fino ad arrivare alle Messi15, prime vere signature dell’argentino e anzi, primo vero modello del suo genere. Realizzate inizialmente in bianco e celeste con tacchetti gialli (i colori dell’Argentina) le Messi15 non assomigliano a nessun tipo di adidas mai realizzate, anzi rinunciano addirittura alle tradizionali tre strisce in evidenza e brevettano una nuova tomaia, la messiTouch, che dovrebbe nelle intenzioni garantire il tocco dell’argentino.
Così come descritto sembrerebbe un duello a due tra adidas e Nike, il che è sotto un certo punto di vista vero. È tuttavia una versione parziale della storia, che vede le signature emergere sia in passato, nei celebri casi della Diadora (di cui parlammo qualche mese fa) sia sempre più di recente. La Under Armour per esempio, dopo essersi presa il miglior giocatore dell’NBA, Steph Curry, ha prodotto una signature camo scommettendo su Memphis Depay, prossima stella del Manchester United. Anche lui esterno di fascia, talentuoso e con la maglia numero 7.
La New Balance pure, dopo il ritorno in auge nello streetwear degli ultimi anni, ha puntato fortissimo sul calcio e sulla produzione di scarpini da gioco. La punta di diamante della campagna è il numero 8 del Machester City, Samir Nasri. In un’intervista con Soccerbible ha dichiarato «voglio essere parte della storia, non viverla marginalmente. Ho condiviso questa visione con New Balance, e per questo ho firmato per loro». Strappato alla concorrenza porprio di adidas, Nasri ha annunciato su Instagram la sua prima signature, la blue sky.
In Italia invece? Aspettando il ritorno definitivo della Diadora, è la Lotto una delle poche ad avere una signature di un certo livello, con Luca Toni. Tra gli italiani invece, è sempre Mario Balotelli ad attrarre sponsor e contratti pubblicitari. Nel 2013 – forse uno dei suoi migliori momenti – ha avuto addirittra l’onore di lanciare una signature con la Puma, attraverso la campagna Why Always Puma?, che riprendeva una maglietta polemica di Mario ai tempi del City.
Palette arcobaleno di colori e accostamenti stravaganti non sono sempre stati la regola in fatto di scarpette da calcio. Chi era ragazzino nei primi anni duemila ha potuto assistere all’arrivo delle prime Nike Mercurial Vapor completamente gialle, o all’invasione Total 90. Vivendo sempre con il dogma che associava la Nike all’estetica e l’adidas alla comodità.
Prima ancora, molto prima, gli scapini erano semplicemente neri, come la Pantofola D’oro ci ricorda. In un microscopico negozio dove mia madre mi accompagnava a scegliere ogni anno le scarpette per gli allenamenti di calcetto, campeggiava un enorme poster della Pantofola D’oro, che quel commerciante ha elogiato per tutta la mia giovinezza come miglior scarpetta di sempre.
Il nero ha cominciato a scomparire quando i fenomeni, i giocatori di maggior classe, hanno preso a indossare scarpette bianche. Il primo fu Rivaldo, con le iconiche Wave Cup dei Mondiali in Giappone e Korea. Un giocatore che ha rappresentato probabilmente la fine del calcio romantico degli anni ’90, quello in cui le signature ancora non si sapeva cosa fossero, e le pubblicità della Nike non avevano condizionato il nostro immaginario.
Non era un calcio migliore o peggiore, ma diverso sì. Come le scarpe indossate, magari più pesanti.