Rafa Leão
Dietro il sorriso
Cronaca di sei mesi passati con Rafa Leão per curare “Smile”.
Durante una intervista a BSMT Damiano David, frontman della più popolare band rock degli ultimi tre anni, ha raccontato: «abbiamo aperto ai Rolling Stone, ho conosciuto alcuni dei più grandi artisti e celebrità del pianeta, eppure niente mi fa l’effetto di incontrare un calciatore. Per me sono delle divinità». Damiano non è certo l’unico a nutrire questo tipo di sentimento: il calcio non è solo il più popolare sport al mondo, ma il volano culturale che più d’ogni altro ha influenzato le vite (almeno nel mondo occidentale, Stati Uniti esclusi) di ogni Millennial – ancora meglio se uomo. Non esiste nulla come i calciatori e non c’è niente che vorremmo conoscere più della vita dei calciatori. Ma cosa succede quando entri nella loro vita per mesi, e quella vita la fai a pezzi, la analizzi e poi cerchi di rielaborarla per renderla fruibile a tutti? Chi diventano, davvero, i calciatori in quel momento?
Negli ultimi circa sei mesi nss ha avuto la fortuna di lavorare a fianco di Rafa Leão per curare "Smile", in uscita da oggi, 20 febbraio, per Piemme Edizioni. Curare un libro sulla vita di un calciatore significa andare a scavare dietro un mito, accettare che potrebbero esserci aspetti deludenti nella sua vita, di aver idealizzato quello che in fin dei conti è un essere umano. Rafa Leão è invece esattamente come te lo aspetti, pur avendo parlato pochissimo in pubblico è assolutamente trasparente, capace allo stesso tempo di nascondersi e di mostrarsi senza nessun tipo di filtro. Di Rafa Leão si parla spesso come di un calciatore generazionale, a partire proprio dal sottotitolo del libro “La mia vita tra calcio, musica e moda”, emergono alcuni elementi che non sono comuni alla vita di tutti i calciatori. Sotto certi punti di vista Rafa Leão è un calciatore generazionale, e non tanto per le sue prestazioni in campo, ma per il modo in cui approccia il calcio. Quello che abbiamo imparato conoscendolo è che per Leão il calcio è un sogno, ma non l’unico sogno della sua vita: «Quando ero piccolo ricordo esisteva un magazine che non parlava di campo in maniera ossessiva, ma si concentrava invece sul far scoprire ai tifosi i gusti, le passioni e la vita dei calciatori. Promuoveva una cultura positiva attorno ai calciatori, portandoli più vicini ai tifosi, mentre mi sembra che oggi tutto quello che si cerca di fare sia isolare i giocatori e mettere sulle loro spalle quanta più pressione possibile». Siamo abituati a pensare ai calciatori come esseri mono-dimensionali ma soprattutto con sogni monodimensionali. Leão non lo è, e in questo non è eccezionale, ma assolutamente normale.
Rafa Leão è nato nel 1999, cresciuto tra calcio, smartphone e videogame come qualsiasi altro ragazzo della sua età. C’è un aneddoto che racconta alla perfezione l’infanzia di Leão e del suo rapporto con il calcio. Leão giocava allo Sporting e per un torneo in Germania aveva bisogno dell’autorizzazione di un genitore:
«In quel periodo giocavo tantissimo ai videogame, una cosa che mi sono portato appresso fino ad oggi. Oggi mi piacciono i simulatori di corsa, all’epoca la mia vita era tutta PES, FIFA e Pokémon. Avevo appena ricevuto un Game Boy ma come tutti i ragazzini tendevo a stancarmi molto presto delle cose. Non potevamo però permetterci di cambiare videogame con la stessa frequenza dei miei compagni, decisi quindi di guadagnarmelo, a modo mio. Avevo saputo di un nuovo videogame - ad essere sincero non ricordo neanche più quale - che girava meglio sul pc ma mia madre non me ne avrebbe mai e poi mai comprato uno.
"Papà?"
"Dimmi Rafa."
"Ricordi quel computer che volevo?"
"Sì, e allora?"
"Ecco, a breve avremo il torneo in Germania, se gioco bene me lo compri?"
"Beh, dovrai fare qualcosa in più che giocare bene. Dovrai diventare il capocannoniere del torneo. Torna con quel trofeo e io ti comprerò il computer."
Non me lo feci ripetere due volte: realizzai una tripletta in finale e feci quasi il doppio dei gol del secondo nella classifica capocannoniere. Vincemmo il torneo ma avevo solo nove anni e il mio pensiero andava unicamente a ciò che mi avrebbe aspettato a casa. Scattai una foto con il mio cellulare e la inviai a mio padre con questo messaggio: “ricordi di quella scommessa?”.»
“Mi sembra che oggi tutto quello che si cerca di fare sia isolare i giocatori e mettere sulle loro spalle quanta più pressione possibile”
“Mi sembra che oggi tutto quello che si cerca di fare sia isolare i giocatori e mettere sulle loro spalle quanta più pressione possibile”
C’entra sicuramente la timidezza dietro la reticenza a parlare con i media, ma non è solo questo: Rafa Leão appartiene a una generazione diversa che il mondo del calcio non ha ancora imparato a intercettare. Il ruolo dei media non è più necessario, anzi, diventa a volte deleterio per chi con una semplice Instagram Story può arrivare a tante più persone senza doversi preoccupare di come verrà ricostruita la sua verità: «Credo che il modo in cui il mondo del calcio si approccia ai calciatori sia profondamente sbagliato. Si tende a pensare ai calciatori come dei superuomini, ma la realtà è che non lo siamo. I media hanno costruito una narrativa attorno ai calciatori che non mi piace per niente. Che mondo è quello in cui un articolo per raccontare una tripletta di un giocatore fa vendere meno copie di un articolo in cui si critica quello stesso giocatore? Come siamo arrivati a questo punto?». A pensarci bene, è molto più sensato per un ragazzo di 24 anni costruire la sua narrativa attorno ad un libro scritto in prima persona, che affidarsi a decine e decine di interviste che si preoccupano solo della sua stagione calcistica e del modo in cui pensa di fare gol. Certo, i calciatori si chiamano così perché giocano a calcio, ma è assolutamente anacronistico pensare – nell’era moderna – di limitarli al perimetro del campo da gioco; così come è anacronistico l’approccio dei media mainstream e tradizionali a calciatori come Rafa Leão, alle loro passioni e alla loro vita extra-calcistica.
Rafa Leão non è un calciatore generazionale perché ha tanti interessi, ha tanti interessi proprio perché rappresenta una generazione, la Z, che non ha mai pensato neanche per un istante di essere monodimensionale, perché il mondo in cui vive non glielo permette. Purtroppo però questa attitudine viene continuamente fraintesa ed a Leão gli si chiede cosa preferirebbe vincere tra un Pallone d’Oro e disco d’oro, senza neanche sapere come si ottiene un disco d’oro o qual è l'obiettivo di Leão nella musica, universo nel quale si è lanciato sotto il moniker di Way 45. «Io voglio giocare a calcio nella vita, e fare musica nel mio tempo libero. E’ la mia medicina, la mia valvola di sfogo. Quando torno a casa da un allenamento le uniche cose che mi rilassano sono la mia siesta e sedermi nel mio piccolo studio di casa e scrivere. Non mi importa se non arriverò mai da nessuna parte, Lil Baby, Travis Scott, per me sono degli idoli da ascoltare prima delle partite per entrare nel giusto mood, non ambisco a quel livello di perfezione», ha raccontato Rafa in una delle sessioni più intense per la curatela del suo libro.
Leão si diverte molto di più a parlare di quello che lo circonda rispetto a quello che accade in campo. Il calcio è semplice dopotutto, sono gli esseri umani che lo complicano. Spesso durante le lunghe chiacchierate nel suo appartamento milanese, realizzate dopo la sua proverbiale siesta rigenerativa, era evidente come Leão fosse molto più elettrizzato di parlare del modo in cui ha deciso di iniziare la sua carriera da rapper, o di cosa si aspetta dalla vita dopo il calcio, piuttosto che delle sue prestazioni sportive. E questo non perché non sia attento o concentrato sul campo: quella è una narrativa tossica che gli hanno cucito addosso, perché sul campo sembra indolente - «qualsiasi cosa significhi» - ma non esiste un professionista come Leão in realtà. Non esiste un ragazzo così giovane che abbia imparato a fare i conti con il suo corpo e su quanto fondamentale sia curare il proprio corpo e ogni singolo allenamento. Solo perché ha delle qualità fuori dal normale pretendiamo che sia ossessionato dal gioco del calcio, come Andre Agassi o Kobe Bryant. Non è così. E non deve per forza esserlo.
In quest’ottica è singolare la risposta che ci ha dato quando gli abbiamo chiesto cosa vorrebbe fare una volta conclusa la tua carriera da calciatore. «Non è un pensiero facile, sono nato giocando a calcio ed è giocando a calcio che mi sono costruito un'identità, ed è difficile anche per me immaginare il dopo. A oggi però di una cosa sono sicuro: quando avrò smesso di giocare a calcio non resterò nel calcio… Il mio futuro non sarà nel calcio, di certo, e se ancora è decisamente troppo presto per pensare al domani, il mondo della moda è una alternativa seria al mio futuro». E’ ammirevole osservare il modo in cui Leão parla di moda: è umile, ha tantissima voglia di ascoltare e di sentire i racconti degli altri. Di confrontarsi e provare anche solo a spiegare quello che pensa e che tipo di visione ha di questo mondo. Ha fondato un brand di moda, Son is Son, con l’obiettivo di raccontare una storia molto immediata, ma non solo: di fare gavetta per capire come si costruisce una collezione, come si gestisce un brand.
Quando parla del suo brand non usa mai la prima persona singolare, e se lo fa e per raccontare di un processo formativo, non creativo: «Ho osservato il processo creativo e produttivo da vicino, con umiltà e dedizione: ho capito cosa significa selezionare una shape, come viene scelto un tessuto e perché e quali produttori serve attivare e come. E’ stata un'esperienza formativa, ed a parte il calcio il mio primo “lavoro”, perché a differenza della musica quello che viene messo in moto quando vuoi fare una produzione farei fatica a definirlo un hobby. Non ho alcuna formazione, ma sono giovane e mi sto applicando tanto. Piano piano sto imparando a conoscere i designer e identificare i loro stili».
La copertina di questo racconto generazionale rappresenta l’universo di Rafa Leão in un semplice primo piano. C’è il movimento, il fisico e l’energia di un atleta fuori dal comune, c’è l’attenzione allo stile con le treccine che Leão ha ammesso di aver fatto crescere perché le aveva suo padre e ricordavano quelle di Bob Marley, uno dei suoi idoli musicali. Si vedono i tanti tattoo, tutti fatti dopo il suo arrivo a Milano, ma soprattutto il sorriso, che dà il titolo al libro e aiuta a capire tanto di Rafa come ragazzo dentro e fuori dal campo. Leão ha spesso ammesso che il suo sorriso sia una sorta di riflesso incondizionato del proprio corpo, spontaneo e naturale, ma a pensarci bene racchiude lo spirito con cui il numero 10 del Milan approccia la vita e il calcio. Con il sorriso Leão giocava al Bairro da Jamaica quando non sapeva che avrebbe vinto uno Scudetto con Zlatan Ibrahimovic e giocato un Mondiale con Cristiano Ronaldo. Lo stesso sorriso è rimasto poi in tutti questi anni, lo strumento più forte per comunicare le emozioni all’esterno, persino più dello sguardo. Allora quando il fotografo ha alzato l’obiettivo per scattare la copertina tutto è venuto naturale, occhi chiusi e un sorriso grande come la storia che Leão vuole continuare a scrivere. «Questo libro è un regalo da parte mia per tutti i tifosi», a questo punto non resta che dire Grazie, Rafa.
Smile - il libro sulla vita di Rafael Leão, curato da nss ed edito da Piemme, è disponibile sul sito dell’editore, qui.
Photographer: Andrea Ariano
Stylist: Andrea Colace
Set Designer: Alina Totaro
MUAH: Silvia Mancuso
Photographer Assistant: Andrea Murelli
Stylist Assistant: Anna Lucia Denti
Set Assistant: Matteo Abbo
Interview: Francesco Abazia e Tommaso Berra