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More Than - Alberto Tomba

Il Gigante

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Alberto Tomba

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27 febbraio 1988, Sanremo, Teatro Ariston. Miguel Bosé e Gabriella Carlucci, i due conduttori della serata più attesa dagli italiani, per un momento non stanno annunciando un nuovo cantante pronto a scendere le fatidiche scale che hanno fatto la storia della musica. Anche loro sono spettatori della seconda manche dello Slalom Speciale da Nakiska, Canada, dove Alberto Tomba ha una manciata di secondi da dover recuperare sul forte sciatore tedesco Frank-Christian Worndl. Tomba, che pochi giorni prima aveva già vinto con facilità la medaglia d’oro nello Slalom Gigante, scende sulle nevi canadesi con quella potenza e classe che gli valsero il soprannome di La Bomba. Al traguardo le posizioni sono invertite, Worndl arriva ad un soffio di vento dallo sciatore azzurro. È stato veloce, molto. Ma non abbastanza. Alberto Tomba trionfa di nuovo, è ancora medaglia d’oro, ancora alloro Olimpico. Qualche ora dopo vincerà anche Massimo Ranieri con Perdere l’amore, ma nel frattempo milioni di italiani l’amore lo hanno trovato per lo sci italiano e per il suo cavaliere più lucente e vincente. Quell’Alberto Tomba che con il suoi modi scanzonati non rappresentò solamente un’eccellenza sportiva, ma uno stile di vita, una italianità che ancora oggi appassiona e conquista. Per questo lo abbiamo scelto come nuovo protagonista di More Than.

"Lo dico? Forse era meglio se fermavo le ultime edizioni rispetto a quella dell’epoca” gioca come sempre Alberto Tomba, abituato a slalomeggiare anche tra le domande. «Nell'88 ebbi la fortuna che la gara di Slalom Speciale cadeva proprio di sabato sera, durante la finale di Sanremo. La Carlucci e Bosè sul palco si collegarono "fermi tutti c'è Alberto Tomba che scende". Meno male che ho vinto quella volta altrimenti i giornali mi avrebbero dato tutti contro. Io non mi aspettavo che ci fossero venti milioni di italiani sintonizzati in quel momento lì, dopo ho capito cosa avevo combinato, ho chiamato la mamma con questi telefonini enormi di una volta “qui c’è il delirio, ci sono chilometri di coda per arrivare al cancello di casa”. La Tomba-Mania, l'Albertite, è nata in quel febbraio 1988». Sulle piste di Calgary l’Italia si emozionò per lo sciatore bolognese, nato in città e non sulle vette alpine, con quel pizzico di fantasia e spavalderia che molti suoi colleghi o avversari potevano solo sognare di possedere. Lui, l’alieno arrivato allo sci quasi per gioco “a differenza di qualcuno che è nato a due-tremila metri, già da piccolo avevo qualcosa di diverso, una voglia di emergere in uno sport”, era diventato un idolo nazionale.

«Mi ricordo che nei bar si scommetteva sulle mie gare, dal calcio erano passati allo sci. Anche sulle prime pagine delle riviste sportive si mettevano più che volentieri sia Tomba con titoli come “il campione”, “super Tomba” tutti i superlativi possibili, che Deborah Compagnoni. Eravamo la coppia del secolo». Mentre siamo seduti sui divani in velluto dentro una chiesa sconsacrata di Bologna, Tomba snocciola come un rosario tutte le sue vittorie più significative. «Calgary ‘88 Canada due ori, dopo quattro anni Albertville. Quindi giocavo anche un poco coi nomi e coi numeri Calgary, Canada, Stato dell’Alberta, (si indica N.d.R) Albertville invece era casa mia, non potevo tradire: oro e argento. Lillehammer 1994 una rimonta da tredicesimo a secondo a pochi centesimi da un forte austriaco, 1995 Coppa del mondo a Bormio, 1996 Mondiali, doppio oro e lì mi dissi che sarebbe stata l’ultima stagione. Poi ancora i Mondiali a Sestriere e l'ultima stagione del 1998».

«Dopo le prime vittorie e le Olimpiadi mi aspettavano. Ero condannato alla vittoria, dovevo riconfermarmi subito dopo, il secondo posto era diventato una delusione, per non parlare del quinto o sesto»
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«Dopo le prime vittorie e le Olimpiadi mi aspettavano. Ero condannato alla vittoria, dovevo riconfermarmi subito dopo, il secondo posto era diventato una delusione, per non parlare del quinto o sesto»
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Una carriera unica, insuperabile, e che ha rappresentato un momento irripetibile per l’intera Nazione. Tomba è stato un fenomeno culturale, uno squarcio sul dominio del calcio e il tedoforo dell’isteria collettiva verso la discesa alpina. Come spesso succede in Italia non si segue più lo sport, si tifa l’atleta; con tutte le esagerazioni del caso. «Però dopo le Olimpiadi, ovvio, e le prime vittorie mi aspettavano. Ero condannato alla vittoria, dovevo riconfermarmi subito dopo, il secondo posto era diventato una delusione. Non ti dico il quinto o il sesto e questa era un po' la stampa crudele di quegli anni, a differenza di oggi». Ancora oggi Tomba si ricorda di quella pressione come se lo avesse limitato nelle sue scelte, anche se la sua concentrazione era totalmente rivolta agli sci ed ad arrivare quel centesimo prima dei suoi rivali al traguardo.

«Sì c'erano gli anni delle sfilate, ma non mi andava troppo e quindi lasciavo qualcun altro andare. Anche mio papà mi diceva “non dire troppi sì”, perché dopo perdi giorni e ore di allenamento e lì sono stato un po' disubbidiente. Non l'ho seguito proprio alla lettera, oggi i campioni sono più furbi e bravi, per quelli di una volta era assai diverso. Eri un po' troppo disponibile e perdevi tempo per l’allenamento». Per tutta la sua carriera, e anche dopo, Tomba ha dovuto evitare come i paletti dello Slalom le attenzioni eccessive, le pressioni sconsiderate, le gelosie che accompagnano le vittorie. Ha saputo mantenere quello sguardo fanciullo, la leggerezza di un bambino che per la prima volta inforca un paio di sci troppo lunghi per scendere giù dai monti appena la neve da l’impressione di restare qualche minuto in più prima di diventare ruscello.

«Ma guarda in città fino a dieci anni eravamo con mio fratello, abitavamo in città e quando nacque mia sorella nel ‘76, mio papà prese la decisione di andare a vivere in collina. Ed è stata una scelta giusta. Già con le prime nevicate di una volta prendevo gli sci da casa mia, andavo fino giù al ruscello a Rio dov'era la scuola. Ai salesiani andavo con gli sci, ma tante cose che facevi qua sulle colline oggi non si possono più fare, perché non nevica più come una volta. Qui Carlo Zucchini organizzava le garette di slalom sulle colline a Borgomanero, sui colli a San Mammolo. E si andava anche a Sasso Marconi, Al Piccolo Paradiso, sulla plastica, c'era una pista da sci d'erba. I bolognesi amavano molto sciare, soprattutto nelle Alpi, ma anche qua in Appennino perché quando nevicava era molto bello».

Dalle discese degli Appennini fuori Bologna fino alle medaglie Olimpiche in Canada, Tomba ha incarnato lo stereotipo dell’Italia vincente nel mondo. Anzi lo ha ridefinito. Lui, idolo delle folle, anche e soprattutto perché non si è mai conformato alle regole, né nello sport né nella vita, ancora oggi rimane un’icona. A ventisei anni di distanza dall’ultima gara - “vincente” come ci tiene a sottolineare - il suo nome ancora evoca successi impensabili e sorrisi assicurati. “Dovete dirmelo voi perché sono ancora così amato dagli italiani. È bello, commovente andare al di fuori della tua città e vedere la gente e l'accoglienza calorosa che ancora ho. Poi non parliamo all'estero nei paesi dell'Est o anche in Norvegia, Svezia, in Giappone. Io mi commuovo, chiamo la mamma e piango, è in quei momenti che mi rendo conto di cosa ho combinato.”

Throughout the story full look NAPAPIJRI.

Photographer: Marco P. Valli
Videomaker: Federico Conte
Stylist: Luca Rosei
MUAH: Carolina Antonini
Ph. Assistant: Andrea Nicotra
Interview: Lorenzo Bottini

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